10 gennaio 2005


Black Coral al tramonto.

Vista di Pohpei da Black Coral.

CAPODANNO A BLACK CORAL

Eccola finalmente. Dopo mezz’ora passata scrutando il fondo del mare, nuotando su e giù lungo il canale che divide i due isolotti finalmente sono riuscita a scovarla. Sta in uno spazio sabbioso tra due blocchi di barriera corallina, un paio di metri sotto di me. Una conchiglia. Di quelle a forma di cono che si trovano anche sul bagnasciuga di Jesolo, lunghe un paio di centimetri. Questa però è enorme, di centimetri ne misura per lo meno sessanta. È la casa di un abitante del mare poco amichevole, di quelli che tendono ad accogliere i visitatori con i pungiglioni in assetto di guerra. Proprio il contrario delle creature che mi circondano, nuotando impassibili come se io, questa enorme figura che staziona sul pelo dell’acqua con maschera e pinne, non esistessi nemmeno. Rimango a guardare la conchiglia per un po’, muovendo appena le pinne per contrastare la corrente che muove l’acqua del canale in questi giorni di vento, ma l’abitante della conchiglia non si fa vedere. Ma so che c’è, più di qualcuno nei giorni scorsi è tornato a riva menzionando la grande conchiglia che si spostava nel fondo sabbioso. È splendida, strano che nessuno se ne sia già impossessato, come succede spesso nonostante i divieti. Deve essere per via del suo burbero inquilino.
Sollevo la testa dall’acqua e tolgo il boccaglio per respirare un po’ più liberamente e vedere dove mi trovo. Il canale, come tutti lo chiamano, è una lunga fessura naturale nella barriera corallina che permette ad acqua, pesci e barche di entrare e uscire dalla laguna. Come le bocche di porto a Venezia. Solo che qui il fondo bianco – corallo frantumato dal mare – conferisce all’acqua un colore turchese così intenso che è sempre possibile sapere dove il canale si trova. Mi guardo intorno. Sono all’interno della laguna ma l’oceano sconfinato dista solo un centinaio di metri. Le sue acque scure, profonde ed infinite, tuttavia, non fanno per me. Non in questa stagione di venti e correnti. No, si sta facendo tardi e devo tornare. È domenica pomeriggio e il lungo weekend di capodanno sta per finire. È quasi ora di tornare a casa.
Il canale è fiancheggiato da due isole, quella a destra lunga e sottile, quella a sinistra minuscola, forse un ettaro in tutto, con capanne sollevate da terra che sbucano dalla vegetazione e la fanno somigliare ad un fumetto. Rimetto il boccaglio e mi lascio il canale alle spalle, nuotando di traverso sopra la barriera verso l’isola più piccola. Sfioro la massa compatta dei coralli di pochi centimetri, e devo tenere le mani lungo i fianchi per evitare di danneggiali e di farmi male. I pesci qui sono incredibilmente numerosi, un carnevale di forme e colori visti migliaia di volte in foto, ma mai così da vicino. Gialli limone su blu elettrici, neri di fianco a bianchi e arancioni brillanti, rossi su azzurri, verdi metallici su code dorate. Triangoli, cerchi, palle e tubi che ad una seconda occhiata rivelano occhi e pinne e code. Ricordo la prima volta che ho fatto snorkling qui. Avevo camminato per una decina di metri sulla sabbia, nell’acqua profonda meno di un metro quando, infastidita dalle conchiglie aguzze, avevo messo la maschera e mi ero immersa. Poiché l’acqua era assolutamente trasparente, la vista di centinaia di pesci intorno a me mi aveva colta talmente di sorpresa che ero riemersa di scatto. E ancora adesso, ogni volta che cammino quei pochi metri, metto le pinne e mi allungo nell’acqua, la vista di tanta attività continua a cogliermi impreparata.
Continuo a nuotare verso l’isolotto con le capanne senza sollevare la testa. Non ho bisogno di controllare la distanza che mi separa dalle sue rocce, la temperatura dell’acqua aumenta con la vicinanza, fino a diventare così calda da risultare quasi fastidiosa. Quasi trenta gradi. Due dei bimbi del gruppo chiacchierano galleggiando in questa sorta di vasca naturale profonda solo qualche spanna. Riemergo, sollevo la maschera e tolgo le pinne, lasciando che le scarpe di gomma da sub continuino a proteggere da coralli e conchiglie i miei piedi viziati da decenni di morbide scarpe di pelle italiana. La maglietta e i pantaloncini in cotone che indosso grondano d’acqua e pesano. Nessuno si sognerebbe di entrare in queste acque trasparenti e galleggiare per mezz’ore intere guardando pesci e coralli senza qualcosa per bloccare i raggi devastanti del sole. La pelle brucia velocemente qui. Chiedo se gli altri sono già pronti per partire, ma mi rispondono che nessuno si è ancora mosso dalle sedie all’ombra delle piante. È sempre così. Quando il clima è clemente è sempre uno sforzo lasciare Black Coral.
Erano occorsi tre diversi viaggi a Tokio, il proprietario dell’isola, per trasportare tutti noi e le nostre provviste da Pohnpei a qui. La barca lunga e poco profonda aveva impiegato ogni volta 45 minuti a percorrere quei pochi chilometri, tanto era carica. Quando Tokio aveva finito con le traversate avevo contato 28 tra adulti e bambini e un numero spropositato di enormi coolers, i frigoriferi da campeggio, sotto la tettoia al centro dell’isolotto. Contenevano insensate quantità di cibo, acqua, bibite, birre, vino e champagne immersi in chili e chili di ghiaccio. Non c’è elettricità sull’isola, e noi ci eravamo attrezzati per festeggiare a dovere la fine dell’anno nonostante la lontananza dalla civiltà. Erano occorse due persone per trasportare ognuno dei coolers, e talvolta tre per sollevare i più grandi dalla barca. Gli attacchi di fame e di sete non ci avrebbero di certo colti impreparati.
L’idea del capodanno a Black Coral l’avevano avuta per primi qualche anno fa Steve e Uta, l’avvocato americano un po’ hippy che ha un suo studio a Pohnpei e la sua teutonica moglie. Ogni anno agli inizi di dicembre Uta telefona a Juanita, la moglie di Tokio, e affitta l’intera isola per tre giorni. Cinquecento dollari in tutto, circa 15 dollari per persona a notte, meno per i bambini. Quando le 8 capanne non sono sufficienti, la gente porta le tende e si accampa. Ma per quanta gente ci sia, la calma regna sovrana a Black Coral. C’è chi dorme per mezze giornate dentro le capanne, cullato dal rumore dell’acqua. Chi occupa le amache con un libro in mano, salvo poi addormentarsi dopo aver voltato al massimo un paio di pagine. Chi chiacchiera quietamente all’ombra degli alberi. Chi prende una sedia, allunga i piedi su una roccia e si siede a guardare l’oceano e la sottile striscia verde dell’atollo di Ant, qualche chilometro più a nord, nessun pensiero a turbare la vista. I bambini giocano per ore senza annoiarsi mai. Deve essere fantastico avere 6 anni e un’isola tutta per sé. Talvolta qualcuno gioca a bocce girando intorno alle capanne, alle palme, e alle rocce. Di tanto in tanto, poi, ognuno di noi lascia queste attività così faticose e scende nell’acqua calda e trasparente, camminando sopra i coralli acuminati che formano l’isola con le scarpe da sub, le pinne sotto il braccio e le magliette a coprire la pelle. I pesci non godono di nessuna privacy quando ci sono ospiti a Black Coral. In ogni momento della giornata vi sono sempre almeno un paio di boccagli che sbucano dall’acqua e pattugliano lentamente il canale, scrutano la barriera, o escono in mare aperto e girano intorno alle isole. E ogni tanto qualcuno di questi strani esseri che esce dall’acqua con i vestiti grondanti e il viso segnato dalla maschera annuncia quietamente di aver visto una tartaruga nuotare verso il mare, un branco di barracuda girare in cerchio, uno squalo posato sul fondo. Lo squalo mi manca, ma non ho fretta di vederlo. A memoria d’uomo gli squali a Pohnpei non hanno mai attaccato nessuno, non sono grandi abbastanza. A me basta sapere che in laguna non entrano.
Black Coral è solo una delle tante isole parte della barriera corallina che circonda Pohnpei e che appartengono a famiglie del posto da generazioni. Ciò che rende preziosa quest’isola, però, e la sua posizione al centro di un’area protetta, una delle cinque esistenti sulla barriera. La creazione delle aree e l’enorme lavoro per ottenere l’approvazione del governo e i finanziamenti sono il frutto straordinario del lavoro di Simon Ellis – il mio vicino di tavola a Natale – e di sua moglie Eileen, i due biologi marini a cui Pohnpei deve così tanto e che sono parte della banda che è sbarcata sull’isola per capodanno. Tokio non è solo il proprietario di queste due isole, è il guardiano di quest’area. È lui che la pattuglia ogni giorno, scrutandola con quei suoi occhi rugosi e silenziosi da uomo di mare, scoraggiando i pescatori di frodo e i visitatori irrispettosi.
La famiglia di Tokio vive a Black Coral, e le capanne sono un modo per arrotondare i guadagli. Questo è un pezzo di paradiso a disposizione di tutti, per qualche ora o qualche giorno, purché si sappia rinunciare ai lussi. Le capanne sono spartane, assemblate con quello che c’è a disposizione, vuote all’interno se non per una grande stuoia e per i materassi di gommapiuma sul pavimento. Un paio di grandi contenitori che raccolgono le abbondanti piogge forniscono l’acqua per la doccia. E quando il sole scompare all’orizzonte Juanita porta una lanterna accesa davanti ad ogni capanna e Tokio accende il piccolo generatore che serve ad illuminare la zona comune e la strada fino agli spartanissimi bagni, dalla parte opposta dell’isola.
Quando esco dall’acqua trovo gli altri seduti sulle sedie di plastica bianche sotto gli alberi, proprio come avevano detto i bambini. Siamo rimasti in pochi. Due gruppi hanno lasciato l’isola durante la mattinata, portandosi dietro coolers semivuoti e conchiglie raccolte tra le rocce. Tokio dice che possiamo partire quando vogliamo, lui non ha fretta. Noi neppure. Con calma infilo tutte le cose bagnate in un paio di sacchetti, l’attrezzatura nelle sacche, apro la valvola alla base del nostro cooler, lo inclino e lascio che il ghiaccio ormai sciolto esca. Poi mi siedo con gli altri. Sebastian gioca ai nostri piedi con la sabbia di coralli frantumati. Black Coral è un sogno per lui; così tante cose da scoprire, così tanta gente che fa a gara per farlo giocare, tenerlo in braccio, passeggiare nell’acqua bassa. Ha fatto il bagno da poco anche lui, seduto nel suo salvagente, e adesso indossa il suo accappatoio bianco da pugile.
Quando le chiacchiere si esauriscono e il tempo di partire alla fine arriva carichiamo tutto, salutiamo Juanita e saliamo in barca. Sebastian in braccio a Matt indossa il suo giubbotto di salvataggio. Questa volta il viaggio dovrebbe essere più tranquillo dell’ultima volta, quando la barca e le minuscole onde della laguna evidentemente avevano mostrato di odiarsi a vicenda, dato che, nonostante il mare appena increspato, gli spruzzi ci avevano inzuppati in pochi secondi ed erano continuati imperterriti per tutto il viaggio. Nonostante la temperatura dell’acqua, Sebastian non aveva gradito. Quando poi stavamo scaricando la barca era arrivato il solito acquazzone tropicale. Avevo fatto appena in tempo a spogliare completamente Sebastian e metterlo dentro l’auto che l’acqua aveva cominciato a venire giù come secchiate degli dei direttamente su di noi. Fradici eravamo già e non valeva la pena inzuppare i sedili, e così eravamo rimasti fuori, mentre Sebastian dentro l’auto saltava da una parte all’altra del sedile posteriore completamente nudo, ridendo come un matto.
Ma questa volta è diverso. In barca, sui coolers, ci godiamo tutti il sole del tardo pomeriggio e la brezza, anche se le feste sono finite e una volta a casa bisognerà lavare vestiti e attrezzatura, pulire le sacche e tutti i contenitori. Ma si parla già della prossima volta, di un altro weekend a Black Coral. A quando uno con qualcuno di voi?


Matt e Kayla, 4 anni, parlano di lucertole. Davanti a loro l'inconfondibile striscia turchese delle acque del canale.

Matt si prepara ad andare in acqua seduto sui gradini della nostra suite.

I coolers sotto la tettoia comune.

La nostra capanna.

I bagni...

Il gruppo prima del nostro lascia l'isola dopo il lungo weekend.

Tavoli e sedie occupano l'area al centro dell'isola, al fresco degli alberi.

Anche Sebastian si gode le acque calde e trasparenti.

Si torna a Pohnpei