31 ottobre 2005

FIJI

Altro mese, altro viaggio. Stavolta da sola, anche se un paio di colleghi mi hanno poi raggiunto dall’Australia. Destinazione: Suva, capitale delle isole Fiji. Per arrivarci faccio, letteralmente, il giro di mezzo Pacifico. Prima tratta Pohnpei-Honolulu (Hawaii), con soste nelle isole di Kosrae, Kwajalein (il piu’ grande atollo al mondo, base militare americana) e infine Majuro, capitale delle isole Marshall. Ora di arrivo ad Honolulu dopo 10 ore di atterraggi e decolli: 2:30 del mattino... non proprio il massimo. Ventiquattr’ore in città e poi riparto in piena notte per altre 7 ore di volo.
Le Fiji che tutti hanno in mente sono purtroppo lontane dal mio hotel e dagli uffici che devo visitare. Le vedo dall’aereo, piccole, rotonde, circondate da sabbia bianchissima e da un incredibile mare blu. Perfette. Io però vado a Viti Levu, l’isola principale, una delle piu’ grandi del Pacifico. Niente atolli, ma il posto e’ bellissimo lo stesso. Dal minuscolo areo che fa i voli interni vedo gli splendidi picchi della foresta tropicale che occupano una parte dell’isola e che poi lasciano il posto alle dolci colline su cui siede, Suva, la capitale. Vasti prati, grandi alberi sparsi qua e la’, gente che cammina lungo la strada indossando abiti tradizionali. Per qualche ragione mi ricorda il Kenya. Forse la terra rossa, forse le piantagioni – canna da zucchero – forse i colori. Le donne hanno i capelli ricci ricci come i loro antenati dalla Papua Nuova Guinea e gli uomini sono senza dubbio tra i piu’ belli visti finora in queste latitudini (il che non vuol dire che siano spettacolari! per quello pare si debba andare alle Samoa...). Senza dubbio sono tra i meglio vestiti che possa capitare di vedere nel Pacifico. La maggioranza di loro infatti indossa eleganti sulu, gonne nere, blu o grigie fatte a portafoglio con una tasca da un lato e una bella fibbia dall’altro. I sulu si indossano rigorosamente abbinati a camicie in tessuti floreali e scarpe eleganti. Sono queste le divise ufficiali delle scuole e di metà della popolazione maschile. Non c’è alcun dubbio che i polinesiani stiano molto meglio in gonna che in pantaloni. Hanno belle gambe non troppo magre, il giusto colore di pelle e qualcosa nei geni che dice che questo – e non gli scomodi pantaloni – è il tipo di abbigliamento che qui si è portato per secoli.
Suva ospita il governo e gli uffici delle principali organizzazioni nel Pacifico – EU, ONU, WWF, e una serie piuttosto vasta di altre – ed è per questo che siamo qui. La città ha una vasta popolazione indiana e cinese da tempo mescolatasi con i locali, e ovunque – nell’architettura, nella gente, nei giardini, persino nell’aria – c’è quell’atmosfera da ex colonia inglese che è inconfondibile.
La settimana è piena piena ma l’ultimo giorno riesco a fare un po’ di shopping. Compero oli di cocco che profumano di fiori tropicali come Tiare e Frangipane, una ciotola in legno dove si mescola la kava – la bevanda tradizionale – un pareo, un paio di giochi e scarpe per Sebastian. E per Matt del rum locale e un bel sulu blu. Un esempio di abbigliamento un po’ inusuale ma bello da avere, anche se non lo si indosserà mai. Il commento di Matt alla vista del sulu? “Ma è una gonna!” “ No Matt, è un sulu”. “Chiamalo come ti pare ma sempre una gonna è”. “No Matt, una gonna è un tipo di abbigliamento per donne, il sulu è una cosa rigorosamente maschile”. “Come no, in Fiji forse. Qui è una gonna e io non la porto”. Inutili le mie spiegazioni – tutti comperiamo roba in vacanza che non porteremo mai, ma ci piace avere nell’armadio – la “gonna” è rimasta sulla sedia per due giorni, finchè la baby-sitter non l’ha appesa tra le mie cose. Dovrei spiegarle che va nell’armadio di Matt, ma visto che lui si è persino rifiutato di toccarla mi sa che se me la tengo evito una guerra!

Honolulu. Vista della citta' dalla mia camera d'albergo al 37imo piano.

Pausa pranzo in uno dei villaggi turistici della costa.

Uomini in sulu.

Il bellissimo atollo di Tarawa, capitale dello stato di Kiribati (pronuncia Kiribas) dove abbiamo fatto rifornimento al ritorno.

04 ottobre 2005

GLI ORGOGLIOSI GUARDIANI DI QUESTE ISOLE

Si può “scoprire” un luogo che per migliaia di anni ha visto le genti del posto risiedervi, adattarsi, evolversi, sviluppare lingue, tradizioni, leggi, usanze, farsi la guerra, costruire regni, esplorare ed estinguersi? Si può passare un giorno per una terra e decidere che la storia ha inizio in quel preciso momento, dare un nome un po’ a caso, tracciare un punto in una mappa e annunciare orgogliosi non solo la scoperta, ma anche il possesso di quel luogo? La domanda è, naturalmente, più che retorica. Non sarebbe altrimenti possibile comprendere quei secoli di storia in cui i viaggi oltremare, verso l’ignoto, portarono gli Europei a “scoprire” – e quindi ad appropriarsi – di ogni nuova terra capitata a tiro. E non solo per smania di conquista. Nel caso del Pacifico, ad attrarre flotte di navi ed enormi investimenti fu la speranza di incappare in qualcosa allora prezioso e, soprattutto, introvabile in Europa: spezie.
Per secoli in Europa l’accesso a carne fresca durante l’inverno fu un privilegio riservato ai pochi in grado di cacciare. Per mancanza di foraggio durante i mesi di neve e gelo il bestiame veniva infatti macellato ogni autunno, la carne essiccata o affumicata per poi essere mangiata – dura, insipida, e spesso rancida – durante l’inverno. Ma quando i crociati tornarono dall’Oriente carichi di aromi fino allora sconosciuti – il pepe e la noce moscata dalle Indie, la cannella da Ceylon, lo zenzero dalla Cina e i chiodi di garofano dalle isole del Pacifico – gli Europei svilupparono un insaziabile appetito per queste spezie che rendevano la carne più gustosa ed erano utilissime nel preservarla. Le difficoltà per venirne in possesso, tuttavia, erano infinite.

Alla fine del 1400 la diatriba su chi avesse il diritto di occupare le terre dei lontani mari ad oriente dell’Europa era stata risolta dal papa in favore del Portogallo, che così si trovò ad avere sia il monopolio delle spezie tramite la rotta verso est, che un saldo controllo delle più ambite fra tutte quelle terre: le Molucche o Isole delle Spezie. Su queste cinque minuscole isole nella zona dell’attuale Indonesia crescevano infatti i preziosi chiodi di garofano, in assoluto le più costose e ricercate fra tutte le spezie. Altrimenti quasi insignificanti, le Molucche divennero l’oggetto di secoli di controversie tra potenze europee e asiatiche e di innumerevoli spedizioni navali in condizioni proibitive.
Nel disperato tentativo di contrastare il monopolio portoghese senza violare la decisione del papa, al resto d’Europa non restò che cercare isole altrettanto feconde navigando a tentoni nella direzione opposta: verso ovest. Fu così che Colombo andò a sbattere contro un intero “nuovo” continente, che molti al tempo considerarono solo un enorme ostacolo sulla strada per le ambite Indie. Ma nel 1521 Magellano, incaricato di «scoprire isole e terre e spezie e quant’altro possa beneficiare il regno di Carlo V di Spagna», aggirò l’America attraverso lo Stretto che ora porta il suo nome ed entrò le calme acque di quell’oceano che lui stesso definì “Pacifico”. Come tutti degli esploratori del suo tempo Magellano non aveva il compito, né l’interesse, a trattare con rispetto le genti e culture di quelle terre lontane. Doveva solo trovare ciò per cui era pagato, impossessarsene nella maggiore quantità possibile, e metter un qualsivoglia sigillo di proprietà su quelle terre. Si trattava di una appropriazione a dir poco indebita – anche se gli uomini del tempo mai l’avrebbero considerato tale – che segnò interi popoli per secoli a venire. Eppure Magellano battezzò le prime isole abitate in cui si imbatté (proprio qui in Micronesia) Islas de Ladronas, dato che quei barbari dei nativi, una volta fatti salire a bordo, si portarono via oggetti che non avevano mai visto prima – pezzi di corda, vestiti, chiodi di ferro – compiendo quello che un indignato Magellano evidentemente ritenne essere un furto ben più serio di quello che lui stesso stava compiendo. E che riuscì benissimo: tre anni dopo essere partito Magellano riapprodò a Siviglia con la notizia di aver trovato l’agognata rotta verso ovest e con ben 25 tonnellate di chiodi di garofano nella stiva. Carlo V non poté contenere la sua soddisfazione: il valore delle spezie ripagava ampiamente le spese della spedizione e le perdite subite. Comprese, ahimè, quelle di 5 dei 6 vascelli partiti e di ben 249 dei 267 membri dell’equipaggio. Ma la corsa ai tesori del Pacifico era solo cominciata.

Danze di benvenuto in favore degli Europei a Pohnpei

Uno dei ritratti di vita sulle isole fatti dai primi visitatori europei
Il primo navigatore a “scoprire” Pohnpei con ragionevole certezza – a quel tempo la longitudine, al contrario della latitudine, non si poteva calcolare – fu Pedro Fernandez de Quiroz, un portoghese al saldo della Spagna che nel 1595 battezzò l’isola Quirosa senza nemmeno prendersi la briga di sbarcare. Nei due secoli successivi, tuttavia, Pohnpei continuò ad essere “scoperta” e quindi a cambiare nome in continuazione, anche se ciò finì per affliggere più i geografi europei che la gente del posto. Inizialmente fuori dalle rotte preferite dai navigatori, Pohnpei godette infatti di svariati decenni di tranquillità, e la vita continuò più o meno inalterata. Ma si trattava di un’illusione. Nell’800 l’isola divennero il luogo di sosta preferito prima dai vascelli inglesi che coprivano le rotte commerciali con la Cina e l’Australia, poi dalle baleniere americane. E niente fu più come prima. Malattie sconosciute decimarono la popolazione, tipi poco raccomandabili introdussero armi, alcool e loschi traffici, e gli immancabili missionari dotati di buone intenzioni alterarono il sistema sociale in maniera irreversibile. Infine, ciliegina sulla torta, arrivarono i colonizzatori. Ben quattro in 60 anni. E ogni volta Pohnpei cambiò padrone a causa di fatti lontani anni luce dai suoi mari.
Durante tutto l’800, la Germania, quatta quatta, si era costruita un impero economico in Micronesia e nel 1885 ne reclamò il possesso scatenando le ire della Spagna, che richiese un arbitrato papale. Il papa diede torto alla Germania e gli spagnoli piantarono immediatamente bandiera a Pohnpei, rimanendovi – tanto detestati da doversi proteggere dietro alte mura di pietra, in parte visibili ancor oggi – finché la Spagna non perse la guerra con gli Stati Uniti.
Al tempo contrari all’idea di governare terre lontane, gli USA vendettero l’intera Micronesia alla Germania, ad eccezione della più grande delle isole, Guam, tutt’ora territorio americano e sede della principale base militare USA nel Pacifico. Determinati a trasformare Pohnpei in una poderosa fonte di reddito, i tedeschi si diedero allo sviluppo agricolo tramite il lavoro forzato. Per anni la gente del posto sopportò senza ribellarsi. Fino al 1910, quando gli abitanti di uccisero a revolverate il tirannico governatore e il suo vice. La reazione tedesca ai due omicidi fu brutale: terra confiscata, parte della popolazione uccisa o esiliata. Ma come la Spagna anche la Germania fu costretta ad abbandonare la Micronesia a seguito di una guerra persa. Il trattato di pace che seguì la fine della Prima Guerra Mondiale diede infatti al Giappone il controllo dell’area.

Si passano i rassegna le reclute!

Gli abitanti di Pohnpei deportati dai tedeschi dopo la ribellione del 1910
I giapponesi diedero all’economia dell’arcipelago una spinta straordinaria, ma lo fecero con inverosimile tirannia e crudeltà, dominando Pohnpei non solo con le leggi e con le armi, ma soprattutto con la presenza di 10mila immigrati giapponesi che costrinsero la popolazione locale, al tempo neanche 5mila anime, a decenni di segregazione. Ma il peggio doveva ancora venire. Il coinvolgimento giapponese nella Seconda Guerra Mondiale e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti, portarono la Micronesia in prima linea nel conflitto. Senza aver avuto niente a che fare con Hitler, Mussolini, o Pearl Harbor, la Micronesia si ritrovò teatro delle più tragiche battaglie aeree e navali del Pacifico – quelle che hanno reso indimenticabili tanti film e creato il mito dei kamikaze – e la sola Pohnpei fu l’oggetto di ben 250, altamente distruttive, incursioni aeree americane. L’Enola Gay, l’aereo che lanciò la bomba atomica su Hiroshima partì dalla base americana sulla piccola isola di Tinian. E quasi l’intera flotta giapponese del Pacifico giace nelle acque di questa nazione, spesso a pochi metri di profondità, talvolta visibile a occhio nudo, terribile testimonianza di quel conflitto e, al tempo stesso, meraviglia subacquea senza eguali al mondo.
Il lancio dell’atomica diede gli americani la vittoria sul Giappone, ma fu l’ONU, nel 1947, a dare agli USA il controllo della Micronesia. Niente colonizzazioni questa volta – almeno sulla carta – ma il mandato di amministrare l’intera area favorendone lo sviluppo, in vista di un’indipendenza da facilitare in pochi anni. Ma gli Stati Uniti sono un osso molto duro, lo sappiamo tutti, quando invocano ragioni di sicurezza nazionale. E isole e atolli sperduti, si sa, costituiscono ottime basi militari e sono perfetti per i test atomici. Così un mandato assegnato per durare pochi anni divenne il più lungo nella storia delle Nazioni Unite. L’indipendenza fu infine concessa solo nel 1979, e ci vollero altri 10 anni per farla diventare effettiva.
Al momento di approvare la Costituzione, la prima da nazione libera, il Congresso dei nuovi Stati Federati della Micronesia (FSM) incluse un Preambolo che riassume le traversie e lo spirito di questi luoghi e questa gente, e che è – per lo meno nella versione inglese, forse meno nella mia traduzione – uno dei testi legali più poetici che possa capitare di incontrare. E dice di questo paese molto più di certi libri.

With this Constitution, we affirm our common
wish to live together in peace and harmony,
to preserve the heritage of the past, and to
protect the promise of the future.

To make one nation of many islands, we
respect the diversity of our cultures. Our
differences enrich us. The seas bring us
together, they do not separate us. Our
islands sustain us, our island nation enlarges
us and makes us stronger.

Our ancestors, who made their homes on
these islands, displaced no other people.
We, who remain, wish no other home than
this. Having known war, we hope for peace.
Having been divided, we wish unity. Having
been ruled, we seek freedom.

Micronesia began in the days when man
explored seas in rafts and canoes. The
Micronesian nation is born in an age when
men voyage among stars; our world itself is
an island. We extend to all nations what we
seek from each: peace, friendship,
cooperation, and love in our common
humanity. With this Constitution we, who
have been the wards of other nations,
become the proud guardian of our own
islands, now and forever.

Con questa Costituzione noi affermiamo

il nostro comune desiderio di vivere in pace
e armonia, di preservare l’eredità del
passato e di proteggere la promessa del
futuro.

Per fare di tante isole una sola nazione,
noi rispettiamo la diversità delle nostre
culture. Le nostre differenze ci arricchiscono.
I mari ci uniscono, non ci separano. Le nostre isole
ci sostengono, la nostra nazione ci ingrandisce
e ci rende più forti.

I nostri antenati, che fecero di queste
isole la loro casa, non cacciarono altre
genti. Noi che qui rimaniamo non
desideriamo altra casa che questa. Avendo
conosciuto la guerra, speriamo nella pace.
Essendo stati divisi, desideriamo l’unione.
Essendo stati governati, cerchiamo la libertà.

La storia della Micronesia ha avuto
inizio al tempo in cui l’uomo esplorava i mari
con zattere e canoe. Lo stato della
Micronesia è nato in un’era in cui gli uomini
viaggiano tra le stelle; il nostro stesso
mondo è un’isola.
Noi estendiamo a tutte le nazioni ciò che
cerchiamo da ognuna di esse: pace,
fratellanza, cooperazione e amore per la
nostra comune umanità. Con questa
Costituzione noi, che siamo stati occupati
da altre nazioni, diventiamo gli orgogliosi
guardiani delle nostre isole, ora e per sempre.

Colonizzatori giapponesia posano con i potenti capi locali

La contraerea giapponese a Pohnpei � ora un monumento arrugginito immerso nella giungla e circondato dalle orchidee.

La bandiera americana sventoler� per quarant�anni su queste terre