19 dicembre 2005

CARP ISLAND

Evitare grandi hotel e sale conferenze refrigerate dall'aria condizionata e' una delle regole non scritte di The Nature Conservancy in tutto il Pacifico. Per la nostra riunione abbiamo scelto la splendida Carp Island, a sud delle Rock Islands. Il posto e' splendido ma piuttosto spartano, con semplici bungalow e poco lusso... a parte quello di essere in un paradiso.

La spiaggia che circonda l'isola.

La sala riunioni.

Una delle poche foto che sono riuscita a fare durante la conferenza. Poiche' ero responsabile dell'intero evento per me ci sono stati pochi momenti di relax. Liberi di crederci o meno, in cinque giorni non sono riuscita a mettere un piede in acqua...

JELLYFISH LAKE

Una delle meraviglie naturali di Palau e' un lago marino racchiuso tra un gruppo di isole nel gruppo delle Rock Islands e noto come Jellyfish Lake. Dei 58 laghi marini racchiusi in queste isole - e visibili solo dalle foto aeree - questo ha una caratteristica quasi unica al mondo: le meduse che lo abitano non hanno predatori naturali all'interno del piccolo lago e durante i millenni hanno perso la capacita' di pungere. Il che significa che e' possibile nuotare tra di loro e toccarle senza alcun problema. Decimate dalle alte temperature dell'acqua causate dal El Nino qualche anno fa, le meduse sono ora in piena forma. Tutte e 9 MILIONI!

Una volta raggiunto il gruppo di isole che ospita il lago via barca bisogna arrampicarsi - letteralmente - lungo le ripide pendici e ridiscendere di nuovo al livello del mare.

E' incredibile come due mondi cosi' diversi possano vivere cosi' vicini!

La mia pinna. Purtroppo il movimento delle pinne spesso danneggia le meduse e di tanto in tanto se ne vede qualcuna a cui manca qualche pezzo... Nonostante i turisti tuttavia, il lago e' incredibilmente ben tenuto e sembra non soffrire della presenza dei visitatori.

Sorrida prego!

Ancora meduse...

Le acque verdi che circondano le centinaia di isole di roccia calcarea.

Le isole viste dalla barca, lasciandoci alle spalle Jellyfish Lake.

L'arco in mezzo alle isole che e' uno dei soggetti favoriti delle cartoline.

Arcobaleno sulle Rock Islands.

22 novembre 2005

FESTA DI COMPLEANNO

Ebbene si, il nostro piccolo ha ormai due anni! Li compie venerdi' 25 novembre, ma io parto sabato per Palau e quindi abbiamo anticipato la festa di compleanno di una settimana. Tre giorni di preparativi - cucinare/surgelare il cibo, trovare abbastanza sedie da giardino, dare una ripulita alla giungla che ci circonda e preparare i giochi per i bimbi - ma la festa e' riuscita benissimo per tutti, adulti compresi. Per fortuna la tata di Sebastian e' stata con noi tutto il giorno e quando anche l'ultimo ospite se ne e' andato la cucina era gia' in ordine, ma io confesso che il giorno dopo ho chiesto ad un collega australiano che ha quattro figli come fa a sopravvivere una fatica del genere quattro volte l'anno e lui mi ha confessato che ogni volta lui e sua moglie giurano che e' l'ultima...

Il successo del giorno: la torta con i maialini di marzapane. E' tradizione qui che i compleanni dei bambini si celebrino con grandi feste e il maiale e' immancabile. Scartata l'ipotesi di spendere 1200 dollari per un maiale adulto da arrostire, io ho optato per quelli di mandorle e zucchero. Modestamente, erano proprio carinissimi e non ci ho nemmeno messo tanto a farli!

Con Jo-Jo, la fidanzata ufficiale che gli ha regalato un anello con un pulsante che fa tutte le luci psichedeliche. Jo-Jo e' la figlia unica adottiva del Ministro di Giustizia.

Giocando con le bolle di sapone. Per ogni bimbo avevamo preparato un sacchettino con le bolle, una pistola ad acqua, una trottola, una trombetta e delle caramelle. Un successone!!!

Uno dei regali preferiti, un libro sui "ciu' ciuuuu'" (=treni) che si e' fatto leggere dalla mia collega Lucille...

...e con Marcy, responsabile dei Peace Corps Volunteers in Micronesia.

A fine giornata, con le macchinine vecchie e nuove...

... e controllando l'allineamento. Tutto la mamma geometra!

Questa foto, scattata dalla nostra amica Eileen (che e' un biologo marino) durante l'ultimo dell'anno a Black Coral in mezzo metro d'acqua, era attaccata al suo biglietto d'auguri a Sebastian.

09 novembre 2005

NAN MADOL

Palme. Spiagge. Mari trasparenti. Canoe. Fiori. Noci di cocco. Capanne. Nonostante l’enorme diversità di lingue e culture, le isole del Pacifico richiamano tutte alla mente paesaggi simili tra loro. Uno stereotipo che si basa su un fondo di verità: le isole sono quasi tutte piccolissime, il clima è praticamente lo stesso e la vegetazione è molto simile. Poichè non esistono metalli in natura – in particolare negli atolli, che sono fatti di corallo – praticamente nessuna delle società esistenti ha sviluppato attrezzi in grado di rivoluzionare lavoro e costruzioni. Ecco perchè le costruzioni tradizionali si assomigliano; cambia un po’ la forma e la funzione, ma sono tutte di legno e con un tetto di palme intrecciate. Materiali altamente deperibili in questo clima. Ed è per questo che la parola “archeologia” non si associa comunemente a questi luoghi: ci sono infatti ben poche cose dei secoli passati che la natura non si sia già fagocitata.
Pohnpei, tuttavia, è una straordinaria eccezione.
A sud-est dell’isola, in una parte della laguna dai bassi fondali corallini, giace una delle meraviglie archeologiche più straordinarie al mondo. Un’intera città costruita sull’acqua. Novantotto grandi isole di forma squadrata costruite con roccia basaltica e corallo da cui per oltre sei secoli – dal 1000 al 1600 – la dinastia dei Saudeleurs ha dominato l’intera isola di Pohnpei. Ma l’intera storia di questo luogo mozzafiato – chiamato Nan Madol, “il luogo di mezzo”, con riferimento ai canali che scorrono tra le isole – è avvolta nel mistero.

Mappa della zona del Nan Madol. La citta' e' quella serie di macchioline al centro, circondata da lunghi muri perimetrali.

La pianta della citta'. L'intero sito e' lungo quasi due kilometri e largo poco meno di uno. Al centro, con il numbero 9 c'e' un'isola quadrata con un ovale al centro: era la sorgente naturale su cui si tenevano le anguille, animali tutt'ora considerati sacri dagli abitanti di Pohnpei.
Da che l’uomo ha raggiunto queste terre la storia si è trasmessa solo oralmente. Il Preservation Office dello stato sta trascrivendo la storia orale prima che venga persa per sempre, ma quando i primi europei arrivarono quaggiù Nan Madol era già disabitato da un secolo. Ce ne vollero altri due prima che un ufficiale tedesco si prendesse la briga di trascrivere le storie che udiva, ed altri centocinquant’anni prima che lo stato si desse all’azione.
Per quanto lontana nel tempo e priva di dettagli, la storia orale ha tuttavia trovato svariate conferme negli studi archeologici e negli esami delle rocce al radiocarbonio. Pare che i due fratelli fondatori di Nan Madol – arrivati per mare intorno all’anno 1000 da una non identificata terra ad ovest – scelsero questo luogo come centro religioso, e convinsero parte della popolazione a costruire le prime isole ed edifici. I loro discendenti dominarono Pohnpei attraverso un sistema mezzo religioso e mezzo amministrativo per secoli. Senza bisogno di un solo soldato. Com’è che la gente di Pohnpei – un’isola di ben 355 km quadrati, coperta di montagne e altamente impenetrabile – si sia volontariamente fatta governare da qualcuno relegato su delle isole artificiali rimane un punto interrogativo. La storia orale parla di rispetto per la religione combinato ad uno spirito altamente competitivo tra le varie zone dell’isola che portò gli abitanti a fare a gara per costruire le isole e gli edifici migliori.
Ma, come spesso succede, da dinastia diventò sempre più autoritaria e sfociò nella crudeltà e nella mancata redistribuzione dei prodotti della terra, un peccato mortale laddove la terra è così rara. La storia dice che la dinastia crollò sotto l’attacco dell’eroe Isokelekel, giunto da un’ignota terra ad est con 333 guerrieri. Isokelekel dichiarò la fine della monarchia assoluta e decentralizzò il potere tra cinque Nanmwarki (il più alto titolo tra i capi tradizionali), ognuno a capo di una vasta zona dell’isola. Incredibile ma vero, il sistema esiste tutt’ora.

La natura cresce indisturbata tra le rovine. I Nanmwarki (capi tradizionali) hanno mantenuto la citta' protetta, ma non sapendo esattamente cosa fare hanno lasciato che la natura prendesse il sopravvento. Ma sotto le piante e metri di terra creata dalle foglie depositate c'e' un'intero mondo da scoprire, come confermato dai pochi scavi.
I titoli tradizionali ancora determinano gran parte della vita a Pohnpei. Il titolo di Nanmwarki è solo parzialmente ereditario, perchè si trasmette non di padre in figlio ma all’interno dello stesso clan. E dato che il clan di appartenenza per ogni persona deriva dalla madre, il successore di un Nanmwarki non è suo figlio, ma il figlio della sorella – comlicato, ma affascinante. I Nanmwarki della zona che comprende il Nan Madol sono da sempre membri dello stesso clan, quello discendente da Isokelekel. La moglie di Bill Raynor, il mio capo, è di quel clan ed è quindi considerata “sangue reale”, anche se di una nobiltà fatta di onore e rispetto ma raramente di ricchezze.
I Nanmwarki della zona del Nan Madol sono da sempre i guardiani della città sull’acqua, ed è per questo che queste straordinarie rovine sono giunte fino a noi. La tradizione vuole che si debba chiedere permesso al Nanmwarki per visitare la città. Tale è l’aura di mistero e rispetto che circonda questo luogo che la maggior parte della gente di Pohnpei non l’ha mai visitato e non ha nessuna intenzione di farlo.
La natura ha ovviamente avuto la meglio delle rovine dopo secoli di abbandono. Alberi e piante tropicali crescono ovunque, coprendo intere isole e distruggendo le costruzioni. Studi archeologici ne sono stati fatti pochi in confronto ad altri luoghi, e il posto è tutto da scoprire.

Dr. Rufino Mauricio, l'antropologo/archeologo che ha scritto la tesi di dottorato sul Nan Madol ci guida lungo il sentiero che attraverso la foresta ci porta alla citta'. Uomo di straordinaria conoscenza e cultura, Rufino e' anche membro del governo e capo del team che sta registrando la storia orale.
Il caso ha voluto che io, unica italiana in questo paese, mi sia inaspettatamente trovata coinvolta nel possibile salvataggio di questa che è soprannominata “la Venezia del Pacifico” (a ragione direi!). La scorsa settimana infatti mi sono ritrovata ad una serie meeting con due rappresentanti dell’UNESCO e svariati rappresentanti dei vari stati della Federazione della Micronesia a parlare di possibili siti da candidare per la lista dei “Patrimoni dell’Umanità”. Io unica non-Micronesiana, unica donna e unica rappresentante per il settore natura (i siti possono essere culturali o naturali o misti) sono stata alla fine nominata nel comitato che preparerà le candidature da parte del governo da presentare alla commissione UNESCO a Parigi. I due tipi dell’UNESCO non avevano parole quando siamo andati a visitare le rovine con l’antropologo/archeologo micronesiano che ha scritto la sua tesi di dottorato sul Nan Madol. Non avevano dubbi che se preparata accuratamente la candidatura può passare. La cosa può richiedere anni, ma mi sembra veramente una incredibile coincidenza che io possa dare una mani – per quanto piccola – per salvare un’altra Venezia che rischia di sparire.

Canali scorrono tra le costruzioni. Nonostante gli studi fatti, la provenienza delle enormi pietre basaltiche esagonali usate per le costruzioni e' tutt'ora ignota. La storia orale, purtroppo sull'argomento non e' stata utile.

Niente puo' preparare il visitatore all'improvvisa vista del Nan Douwas, l'edificio piu' grande della citta'. Ogni muro esterno e' lungo 40 metri e contiene altri due muri interni concentrici, a protezione della tomba dei discendenti della dinastia.

Ognuno dei tre muri concentrici dei questa costruzione e' spesso piu' di un metro e mezzo.

Dopo secoli di abbandono i due muri perimetrali che proteggono la citta' sono quasi scomparsi.

08 novembre 2005

UN BIMBO IN PRESTITO

Questo è periodo di visite a Pohnpei. La Repubblica di Palau, nostro vicino di casa qualche migliaia di kilometri ad ovest,sta ospitando un paio di meeting mondiali sulle barriere coralline e praticamente tutti coloro che lavorano in questo settore sono attualmente laggiù. Ma poichè per andare dagli Stati Uniti a Palau si può passare da Pohnpei, svariate persone hanno deciso di fare sosta quaggiù e per noi ci sono stati giorni intensi di corse all’aeroporto e tour dell’isola per svariati esperti e scienziati.
Una di loro ha portato con sé il suo piccolo di un anno e il piccolo ha passato un sacco di tempo a casa nostra con Sebastian e due tate – una assunta per l’occasione. Nonostante lo scetticismo di tutti – i due cuccioli sono troppo piccoli per apprezzarsi a vicenda e a questa età tendono ad essere piuttosto possessivi – i bambini se la sono spassata un sacco.
Devo tuttavia ammettere che nonostante i giorni passati insieme non ho ancora capito il nome del nostro ospite. La madre è una scienziata mezza hawaiana e mezza svizzera veramente straordinaria, direttrice di quella che sta per diventare la più grande area protetta al mondo. Il padre è un uomo d’affari Maori (Nuova Zelanda, tanto per capirci quelli del canto di guerra degli All Blacks di rugby). Il nome completo del bimbo è lungo una decina di metri. È tradizione maori infatti dare al nuovo nato il nome degli antenati, e la tradizione orale dei maori è tale che possono tracciare a voce il loro albero genealogico indietro qualche migliaio di anni fino al nome della canoa con cui sono arrivati. Se si pensa che poi questo bimbo ha anche i nomi della tradizione hawaiana.... beh le cose diventano complicate. Il mio problema è che io non sono riuscita nemmeno ad imparare il nome breve. Quello, tanto per capirci con cui lo chiama sua madre. Per fortuna che Sebastian continuava a puntare il dito e a chiamarlo “baby”, mi ha evitato un bel po’ di brutte figure!

Ooooh Baby!

Chiaramente il piccolo e' fisicamente diverso da Sebastian. Fianchi strettissimi e muscoli gia' belli in evidenza per questo bellissimo cucciolo del Pacifico.

Quanto si sono divertiti a giocare nell'acqua e spruzzandosi a vicenda!

Nonostante l'interesse per gli stessi giochi non c'e' mai stato uno screzio.

31 ottobre 2005

FIJI

Altro mese, altro viaggio. Stavolta da sola, anche se un paio di colleghi mi hanno poi raggiunto dall’Australia. Destinazione: Suva, capitale delle isole Fiji. Per arrivarci faccio, letteralmente, il giro di mezzo Pacifico. Prima tratta Pohnpei-Honolulu (Hawaii), con soste nelle isole di Kosrae, Kwajalein (il piu’ grande atollo al mondo, base militare americana) e infine Majuro, capitale delle isole Marshall. Ora di arrivo ad Honolulu dopo 10 ore di atterraggi e decolli: 2:30 del mattino... non proprio il massimo. Ventiquattr’ore in città e poi riparto in piena notte per altre 7 ore di volo.
Le Fiji che tutti hanno in mente sono purtroppo lontane dal mio hotel e dagli uffici che devo visitare. Le vedo dall’aereo, piccole, rotonde, circondate da sabbia bianchissima e da un incredibile mare blu. Perfette. Io però vado a Viti Levu, l’isola principale, una delle piu’ grandi del Pacifico. Niente atolli, ma il posto e’ bellissimo lo stesso. Dal minuscolo areo che fa i voli interni vedo gli splendidi picchi della foresta tropicale che occupano una parte dell’isola e che poi lasciano il posto alle dolci colline su cui siede, Suva, la capitale. Vasti prati, grandi alberi sparsi qua e la’, gente che cammina lungo la strada indossando abiti tradizionali. Per qualche ragione mi ricorda il Kenya. Forse la terra rossa, forse le piantagioni – canna da zucchero – forse i colori. Le donne hanno i capelli ricci ricci come i loro antenati dalla Papua Nuova Guinea e gli uomini sono senza dubbio tra i piu’ belli visti finora in queste latitudini (il che non vuol dire che siano spettacolari! per quello pare si debba andare alle Samoa...). Senza dubbio sono tra i meglio vestiti che possa capitare di vedere nel Pacifico. La maggioranza di loro infatti indossa eleganti sulu, gonne nere, blu o grigie fatte a portafoglio con una tasca da un lato e una bella fibbia dall’altro. I sulu si indossano rigorosamente abbinati a camicie in tessuti floreali e scarpe eleganti. Sono queste le divise ufficiali delle scuole e di metà della popolazione maschile. Non c’è alcun dubbio che i polinesiani stiano molto meglio in gonna che in pantaloni. Hanno belle gambe non troppo magre, il giusto colore di pelle e qualcosa nei geni che dice che questo – e non gli scomodi pantaloni – è il tipo di abbigliamento che qui si è portato per secoli.
Suva ospita il governo e gli uffici delle principali organizzazioni nel Pacifico – EU, ONU, WWF, e una serie piuttosto vasta di altre – ed è per questo che siamo qui. La città ha una vasta popolazione indiana e cinese da tempo mescolatasi con i locali, e ovunque – nell’architettura, nella gente, nei giardini, persino nell’aria – c’è quell’atmosfera da ex colonia inglese che è inconfondibile.
La settimana è piena piena ma l’ultimo giorno riesco a fare un po’ di shopping. Compero oli di cocco che profumano di fiori tropicali come Tiare e Frangipane, una ciotola in legno dove si mescola la kava – la bevanda tradizionale – un pareo, un paio di giochi e scarpe per Sebastian. E per Matt del rum locale e un bel sulu blu. Un esempio di abbigliamento un po’ inusuale ma bello da avere, anche se non lo si indosserà mai. Il commento di Matt alla vista del sulu? “Ma è una gonna!” “ No Matt, è un sulu”. “Chiamalo come ti pare ma sempre una gonna è”. “No Matt, una gonna è un tipo di abbigliamento per donne, il sulu è una cosa rigorosamente maschile”. “Come no, in Fiji forse. Qui è una gonna e io non la porto”. Inutili le mie spiegazioni – tutti comperiamo roba in vacanza che non porteremo mai, ma ci piace avere nell’armadio – la “gonna” è rimasta sulla sedia per due giorni, finchè la baby-sitter non l’ha appesa tra le mie cose. Dovrei spiegarle che va nell’armadio di Matt, ma visto che lui si è persino rifiutato di toccarla mi sa che se me la tengo evito una guerra!

Honolulu. Vista della citta' dalla mia camera d'albergo al 37imo piano.

Pausa pranzo in uno dei villaggi turistici della costa.

Uomini in sulu.

Il bellissimo atollo di Tarawa, capitale dello stato di Kiribati (pronuncia Kiribas) dove abbiamo fatto rifornimento al ritorno.

04 ottobre 2005

GLI ORGOGLIOSI GUARDIANI DI QUESTE ISOLE

Si può “scoprire” un luogo che per migliaia di anni ha visto le genti del posto risiedervi, adattarsi, evolversi, sviluppare lingue, tradizioni, leggi, usanze, farsi la guerra, costruire regni, esplorare ed estinguersi? Si può passare un giorno per una terra e decidere che la storia ha inizio in quel preciso momento, dare un nome un po’ a caso, tracciare un punto in una mappa e annunciare orgogliosi non solo la scoperta, ma anche il possesso di quel luogo? La domanda è, naturalmente, più che retorica. Non sarebbe altrimenti possibile comprendere quei secoli di storia in cui i viaggi oltremare, verso l’ignoto, portarono gli Europei a “scoprire” – e quindi ad appropriarsi – di ogni nuova terra capitata a tiro. E non solo per smania di conquista. Nel caso del Pacifico, ad attrarre flotte di navi ed enormi investimenti fu la speranza di incappare in qualcosa allora prezioso e, soprattutto, introvabile in Europa: spezie.
Per secoli in Europa l’accesso a carne fresca durante l’inverno fu un privilegio riservato ai pochi in grado di cacciare. Per mancanza di foraggio durante i mesi di neve e gelo il bestiame veniva infatti macellato ogni autunno, la carne essiccata o affumicata per poi essere mangiata – dura, insipida, e spesso rancida – durante l’inverno. Ma quando i crociati tornarono dall’Oriente carichi di aromi fino allora sconosciuti – il pepe e la noce moscata dalle Indie, la cannella da Ceylon, lo zenzero dalla Cina e i chiodi di garofano dalle isole del Pacifico – gli Europei svilupparono un insaziabile appetito per queste spezie che rendevano la carne più gustosa ed erano utilissime nel preservarla. Le difficoltà per venirne in possesso, tuttavia, erano infinite.

Alla fine del 1400 la diatriba su chi avesse il diritto di occupare le terre dei lontani mari ad oriente dell’Europa era stata risolta dal papa in favore del Portogallo, che così si trovò ad avere sia il monopolio delle spezie tramite la rotta verso est, che un saldo controllo delle più ambite fra tutte quelle terre: le Molucche o Isole delle Spezie. Su queste cinque minuscole isole nella zona dell’attuale Indonesia crescevano infatti i preziosi chiodi di garofano, in assoluto le più costose e ricercate fra tutte le spezie. Altrimenti quasi insignificanti, le Molucche divennero l’oggetto di secoli di controversie tra potenze europee e asiatiche e di innumerevoli spedizioni navali in condizioni proibitive.
Nel disperato tentativo di contrastare il monopolio portoghese senza violare la decisione del papa, al resto d’Europa non restò che cercare isole altrettanto feconde navigando a tentoni nella direzione opposta: verso ovest. Fu così che Colombo andò a sbattere contro un intero “nuovo” continente, che molti al tempo considerarono solo un enorme ostacolo sulla strada per le ambite Indie. Ma nel 1521 Magellano, incaricato di «scoprire isole e terre e spezie e quant’altro possa beneficiare il regno di Carlo V di Spagna», aggirò l’America attraverso lo Stretto che ora porta il suo nome ed entrò le calme acque di quell’oceano che lui stesso definì “Pacifico”. Come tutti degli esploratori del suo tempo Magellano non aveva il compito, né l’interesse, a trattare con rispetto le genti e culture di quelle terre lontane. Doveva solo trovare ciò per cui era pagato, impossessarsene nella maggiore quantità possibile, e metter un qualsivoglia sigillo di proprietà su quelle terre. Si trattava di una appropriazione a dir poco indebita – anche se gli uomini del tempo mai l’avrebbero considerato tale – che segnò interi popoli per secoli a venire. Eppure Magellano battezzò le prime isole abitate in cui si imbatté (proprio qui in Micronesia) Islas de Ladronas, dato che quei barbari dei nativi, una volta fatti salire a bordo, si portarono via oggetti che non avevano mai visto prima – pezzi di corda, vestiti, chiodi di ferro – compiendo quello che un indignato Magellano evidentemente ritenne essere un furto ben più serio di quello che lui stesso stava compiendo. E che riuscì benissimo: tre anni dopo essere partito Magellano riapprodò a Siviglia con la notizia di aver trovato l’agognata rotta verso ovest e con ben 25 tonnellate di chiodi di garofano nella stiva. Carlo V non poté contenere la sua soddisfazione: il valore delle spezie ripagava ampiamente le spese della spedizione e le perdite subite. Comprese, ahimè, quelle di 5 dei 6 vascelli partiti e di ben 249 dei 267 membri dell’equipaggio. Ma la corsa ai tesori del Pacifico era solo cominciata.

Danze di benvenuto in favore degli Europei a Pohnpei

Uno dei ritratti di vita sulle isole fatti dai primi visitatori europei
Il primo navigatore a “scoprire” Pohnpei con ragionevole certezza – a quel tempo la longitudine, al contrario della latitudine, non si poteva calcolare – fu Pedro Fernandez de Quiroz, un portoghese al saldo della Spagna che nel 1595 battezzò l’isola Quirosa senza nemmeno prendersi la briga di sbarcare. Nei due secoli successivi, tuttavia, Pohnpei continuò ad essere “scoperta” e quindi a cambiare nome in continuazione, anche se ciò finì per affliggere più i geografi europei che la gente del posto. Inizialmente fuori dalle rotte preferite dai navigatori, Pohnpei godette infatti di svariati decenni di tranquillità, e la vita continuò più o meno inalterata. Ma si trattava di un’illusione. Nell’800 l’isola divennero il luogo di sosta preferito prima dai vascelli inglesi che coprivano le rotte commerciali con la Cina e l’Australia, poi dalle baleniere americane. E niente fu più come prima. Malattie sconosciute decimarono la popolazione, tipi poco raccomandabili introdussero armi, alcool e loschi traffici, e gli immancabili missionari dotati di buone intenzioni alterarono il sistema sociale in maniera irreversibile. Infine, ciliegina sulla torta, arrivarono i colonizzatori. Ben quattro in 60 anni. E ogni volta Pohnpei cambiò padrone a causa di fatti lontani anni luce dai suoi mari.
Durante tutto l’800, la Germania, quatta quatta, si era costruita un impero economico in Micronesia e nel 1885 ne reclamò il possesso scatenando le ire della Spagna, che richiese un arbitrato papale. Il papa diede torto alla Germania e gli spagnoli piantarono immediatamente bandiera a Pohnpei, rimanendovi – tanto detestati da doversi proteggere dietro alte mura di pietra, in parte visibili ancor oggi – finché la Spagna non perse la guerra con gli Stati Uniti.
Al tempo contrari all’idea di governare terre lontane, gli USA vendettero l’intera Micronesia alla Germania, ad eccezione della più grande delle isole, Guam, tutt’ora territorio americano e sede della principale base militare USA nel Pacifico. Determinati a trasformare Pohnpei in una poderosa fonte di reddito, i tedeschi si diedero allo sviluppo agricolo tramite il lavoro forzato. Per anni la gente del posto sopportò senza ribellarsi. Fino al 1910, quando gli abitanti di uccisero a revolverate il tirannico governatore e il suo vice. La reazione tedesca ai due omicidi fu brutale: terra confiscata, parte della popolazione uccisa o esiliata. Ma come la Spagna anche la Germania fu costretta ad abbandonare la Micronesia a seguito di una guerra persa. Il trattato di pace che seguì la fine della Prima Guerra Mondiale diede infatti al Giappone il controllo dell’area.

Si passano i rassegna le reclute!

Gli abitanti di Pohnpei deportati dai tedeschi dopo la ribellione del 1910
I giapponesi diedero all’economia dell’arcipelago una spinta straordinaria, ma lo fecero con inverosimile tirannia e crudeltà, dominando Pohnpei non solo con le leggi e con le armi, ma soprattutto con la presenza di 10mila immigrati giapponesi che costrinsero la popolazione locale, al tempo neanche 5mila anime, a decenni di segregazione. Ma il peggio doveva ancora venire. Il coinvolgimento giapponese nella Seconda Guerra Mondiale e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti, portarono la Micronesia in prima linea nel conflitto. Senza aver avuto niente a che fare con Hitler, Mussolini, o Pearl Harbor, la Micronesia si ritrovò teatro delle più tragiche battaglie aeree e navali del Pacifico – quelle che hanno reso indimenticabili tanti film e creato il mito dei kamikaze – e la sola Pohnpei fu l’oggetto di ben 250, altamente distruttive, incursioni aeree americane. L’Enola Gay, l’aereo che lanciò la bomba atomica su Hiroshima partì dalla base americana sulla piccola isola di Tinian. E quasi l’intera flotta giapponese del Pacifico giace nelle acque di questa nazione, spesso a pochi metri di profondità, talvolta visibile a occhio nudo, terribile testimonianza di quel conflitto e, al tempo stesso, meraviglia subacquea senza eguali al mondo.
Il lancio dell’atomica diede gli americani la vittoria sul Giappone, ma fu l’ONU, nel 1947, a dare agli USA il controllo della Micronesia. Niente colonizzazioni questa volta – almeno sulla carta – ma il mandato di amministrare l’intera area favorendone lo sviluppo, in vista di un’indipendenza da facilitare in pochi anni. Ma gli Stati Uniti sono un osso molto duro, lo sappiamo tutti, quando invocano ragioni di sicurezza nazionale. E isole e atolli sperduti, si sa, costituiscono ottime basi militari e sono perfetti per i test atomici. Così un mandato assegnato per durare pochi anni divenne il più lungo nella storia delle Nazioni Unite. L’indipendenza fu infine concessa solo nel 1979, e ci vollero altri 10 anni per farla diventare effettiva.
Al momento di approvare la Costituzione, la prima da nazione libera, il Congresso dei nuovi Stati Federati della Micronesia (FSM) incluse un Preambolo che riassume le traversie e lo spirito di questi luoghi e questa gente, e che è – per lo meno nella versione inglese, forse meno nella mia traduzione – uno dei testi legali più poetici che possa capitare di incontrare. E dice di questo paese molto più di certi libri.

With this Constitution, we affirm our common
wish to live together in peace and harmony,
to preserve the heritage of the past, and to
protect the promise of the future.

To make one nation of many islands, we
respect the diversity of our cultures. Our
differences enrich us. The seas bring us
together, they do not separate us. Our
islands sustain us, our island nation enlarges
us and makes us stronger.

Our ancestors, who made their homes on
these islands, displaced no other people.
We, who remain, wish no other home than
this. Having known war, we hope for peace.
Having been divided, we wish unity. Having
been ruled, we seek freedom.

Micronesia began in the days when man
explored seas in rafts and canoes. The
Micronesian nation is born in an age when
men voyage among stars; our world itself is
an island. We extend to all nations what we
seek from each: peace, friendship,
cooperation, and love in our common
humanity. With this Constitution we, who
have been the wards of other nations,
become the proud guardian of our own
islands, now and forever.

Con questa Costituzione noi affermiamo

il nostro comune desiderio di vivere in pace
e armonia, di preservare l’eredità del
passato e di proteggere la promessa del
futuro.

Per fare di tante isole una sola nazione,
noi rispettiamo la diversità delle nostre
culture. Le nostre differenze ci arricchiscono.
I mari ci uniscono, non ci separano. Le nostre isole
ci sostengono, la nostra nazione ci ingrandisce
e ci rende più forti.

I nostri antenati, che fecero di queste
isole la loro casa, non cacciarono altre
genti. Noi che qui rimaniamo non
desideriamo altra casa che questa. Avendo
conosciuto la guerra, speriamo nella pace.
Essendo stati divisi, desideriamo l’unione.
Essendo stati governati, cerchiamo la libertà.

La storia della Micronesia ha avuto
inizio al tempo in cui l’uomo esplorava i mari
con zattere e canoe. Lo stato della
Micronesia è nato in un’era in cui gli uomini
viaggiano tra le stelle; il nostro stesso
mondo è un’isola.
Noi estendiamo a tutte le nazioni ciò che
cerchiamo da ognuna di esse: pace,
fratellanza, cooperazione e amore per la
nostra comune umanità. Con questa
Costituzione noi, che siamo stati occupati
da altre nazioni, diventiamo gli orgogliosi
guardiani delle nostre isole, ora e per sempre.

Colonizzatori giapponesia posano con i potenti capi locali

La contraerea giapponese a Pohnpei � ora un monumento arrugginito immerso nella giungla e circondato dalle orchidee.

La bandiera americana sventoler� per quarant�anni su queste terre

25 settembre 2005

DOMENICHE MICRONESIANE

Le domeniche quaggiu' sono sempre all'insegna del riposo. In mancanza dei pranzi da nonna Ida (purtroppo), di "Quelli che il calcio", il gran premio di formula 1, e l'inevitabile serata in pizzeria, in Micronesia le domeniche si passano pisolando, leggendo, mangiando e - dato che Seb ci ha tutti per se' - giocando.

Si legge il Newsweek sul terrazzo della camera di mamma e papa'.

Si gioca in giardino, nella sandbox costruita da papa'

Dopo un lungo weekend sull'isolotto di Black Coral ci si preparara per tornare a casa.

15 settembre 2005

AGOSTO MESE DI LAVORO

Agosto e' stato un mese di lavoro intenso, spesso lontano da casa. Una settimana a Guam e due in Australia, una serie infinita di ore passate ad immagazzinare informazioni (cercando allo stesso tempo di non dire fesserie).

Australia. Lavoro, lavoro, lavoro. Nove ore al giorno di training e meeting per otto giorni di fila.

Australia. Uomini di un'organizzazione che lavora con The Nature Conservancy appiccano il fuoco su vaste aree della savana. Il fuoco e' elemento rigenerante per le piante (molte non rilasciano i semi se non sotto l'effetto del calore) e non andrebbe mai soppresso, altrimenti la natura si scatena tutta in una volta. Gli enormi incendi che negli ultimi anni hanno devastato gli Stati Uniti e l'Australia sono dovuti proprio a questo e svariati governi adesso utilizzano esperti di "Fire Control".

Australia. Danze aborigene. Invitati dai proprietari del nostro alloggio con cui sono in ottimi rapporti, i due ragazzi discendono dal capo aborigeno locale.

Australia. Sotto la pioggia a scrutare lo stagno nella speranza di vedere il mitico Platypus, un animale talmente assurdo che i primi esemplari portati in Europa vennero considerati uno scherzo. Il platypus e' un mammifero ma deposita le uova (l'unico altro essere al mondo a fare questo e' l'Echidna, sempre originario dell'Australia), sembra una foca ma ha 4 zampe palmate come le anatre, e ha il becco largo e piatto come l'ornitorinco. La piu' grande delusione? Io lo credevo enorme invece un esemplare adulto e' grande si e no come un neonato!!! E poi e' timidissimo!!!