30 dicembre 2004

Natale a Kangaroo Court

Natale ai tropici è esattamente come tutti se lo immaginano: inusuale e un po’ irreale. O per lo meno il Natale come siamo arrivati ad intenderlo noi, con le luci e la neve, l’albero, il panettone e la messa di mezzanotte, ormai festa più pagana che religiosa, anche per chi religioso si professa apertamente e il consumismo in questo periodo dovrebbe a malapena tollerarlo. Natale a Pohnpei è un miscuglio di vecchio e nuovo, di giusto e sbagliato, almeno per l’occhio metà stupito e metà disincantato dello straniero arrivato da poco.
Tutto qui è cominciato verso la fine di novembre, quando la Telecom Micronesia ha addobbato la sua sede sulla strada principale di Kolonia, la capitale, per le feste. Ne parlavano un po’ tutti, ma la prima volta che ho visto le decorazioni accese passando in auto mi è uscita un’esclamazione decisamente poco elegante e ho quasi bloccato il traffico: le luci coprivano l’edificio, gli alberi del parcheggio, la recinzione e persino la pensilina in cemento per il bus scolastico che sta di fronte. Tenendo conto che la strada manca di marciapiede e non è proprio via Montenapoleone, questa profusione di addobbi strideva terribilmente con ciò che la circondava. Ma non solo. Il luogo pullulava di babbi natale, slitte, renne, abeti, e fiocchi di neve tanto estranei alla natura di questo posto quanto le mangrovie a Venezia. Ma se la Telecom a Pohnpei è nota per i suoi eccessi decorativi, non è certo l’unica che si fa prendere da smanie natalizie a dir poco sconcertanti.
Le luci qui addobbano la maggior parte dei negozi in città e diverse case nei dintorni – compresa la nostra – e sinceramente è difficile immaginare il Natale senza di esse. Ma è altrettanto difficile capire quale valore la gente del posto possa attribuire a renne e slitte, quando solo un manipolo di essi ha avuto l’opportunità di vedere la neve. Gli abeti finti in vendita nei negozi principali a novanta dollari l’uno poi aiuteranno anche a preservare le preziose foreste scandinave e canadesi, ma non aiutano di certo le finanze di gente che di dollari ne prende in media meno di due all’ora – se un lavoro ce l’ha. Avrebbe molto più senso avere una palma di natale o un banano di natale, ma naturalmente tutto ciò che viene dal ricco nord ha il fascino del prestigio e della modernità a cui pochi sfuggono. E la tradizione dei regali è quella che più ha attecchito.
Per qualche strana ragione ero convinta che in un luogo dove molte famiglie, anche numerose, vivono dei limitati guadagni di una sola persona, i regali a Natale fossero estremamente contenuti. Il primo sentore che la mia fosse una visione del tutto sbagliata l’ho avuto qualche settimana fa, sfogliando il giornale locale che esce due volte al mese. Un annuncio pubblicitario della Bank of FSM (Federated States of Micronesia) che occupava l’intera pagina informava gli abitanti di Pohnpei che i prestiti per gli acquisti di Natale erano disponibili a partire da quella settimana. Da quel momento andare in banca è diventato un incubo. Poiché l’unico bancomat dell’isola è fuori uso da mesi, l’unico modo per avere dei contanti è di recarsi in una delle due banche esistenti. Una, tuttavia, sembra sempre sull’orlo della chiusura e così l’intera isola si affida alla FSM Bank. Che ha una sola sede. Inutile dire che nelle ultime settimane le code in banca raggiungevano il parcheggio. Certo, non è difficile capire come il consumismo natalizio sia giunto fin qui, visti i 40 anni di amministrazione americana e la globalizzazione rampante. Ma non è solo questo. Questa è un società dove tutto, da secoli, è regolato per evitare qualunque tipo di litigio o persino semplice dissapore, ragion per cui i rapporti interpersonali sono regolati da una complessa serie di reciproche cortesie e formalità. Si tratta di una comunità straordinariamente “non-confrontational” – come la definiscono gli americani – dove persino i giudici talvolta si sottraggono all’obbligo di risolvere una disputa per evitare la responsabilità di scontentare una delle parti. L’obbligo del regalo, quindi, come qualunque altro obbligo sociale, una volta stabilito è difficilissimo da evitare. Chiunque frequenti la scuola, ad esempio, a Natale deve fare un regalo ad un compagno. La scelta è determinata da un’estrazione, ma il costo è stabilito in circa 10 dollari. Che non è poco. Se una famiglia come quella della signora che una volta alla settimana fa le pulizie a casa di alcuni nostri amici ha 6 figli – nel suo caso dai 18 ai 6 anni – significa che 60 dollari se ne vanno solo per quello. Ma per lei che lavora solo ad ore presso alcune famiglie, 60 dollari rappresentano una settimana di pulizie. E naturalmente bisogna tenere conto che nella famiglia allargata – che comprende svariate decine, se non centinaia, di persone – vi sono spesso altri bambini i cui genitori non possono permettersi il costo dei regali, e spetta quindi alla persona che porta a casa i soldi a farsene carico. E poiché questo vale per moltissime situazioni simili, un prestito è spesso l’unica alternativa possibile.
Nonostante tutto questo, tuttavia, mi aspettavo che in un posto così profondamente religioso – dove la fede si manifesta esplicitamente e con molta serenità, tutti vanno a messa due volte a settimana e pregano prima di mangiare, ovunque si trovino – il Natale avesse mantenuto molto del suo spirito originario. E forse è così, certo che assistere alla ressa per gli acquisti con code di quasi un’ora alla cassa è stata a dir poco una sorpresa. Naturalmente so della ressa per averne preso parte, il che mi rende altrettanto colpevole. Ma ho una valida giustificazione. I negozi principali hanno tutti fatto una grande svendita pre-natalizia e noi avevamo posticipato per settimane alcuni acquisti, in attesa di un po’ di sconto. Avevamo infatti un bisogno disperato di un paio di grandi ventilatori da soffitto, di un deumidificatore, di un aspiratore per la cucina, di un trapano, di un po’ di pentolame e delle tende avvolgibili per la camera di Sebastian, dove un lenzuolo colorato appeso a due chiodi aveva da mesi questa funzione. Potremmo definirli i nostri regali di Natale, dato che tutti i nostri, a parte uno, si erano persi nei sovraffollati meandri postali americani e non sono arrivati in tempo.
Naturalmente la gente non affolla i negozi solo per acquistare i regali, c’è anche la spesa da fare, anche se i micronesiani non hanno adottato né la tradizione della cena della vigilia, né quella del pranzo di Natale. Loro festeggiano a colazione del 25, dalle 8 alle 10, e poi vanno a messa. Poiché la popolazione locale è equamente divisa tra cattolici e protestanti, e non vi sono altri gruppo religiosi nell’isola, alle 10 del mattino di Natale non c’è praticamente una sola anima che non sia seduta sui banchi di qualche chiesa. E non c’è dubbio che bisogna avere una grande fede per sedere imperterriti per la celebrazione più lunga dell’anno con nello stomaco una colazione a base di maiale, tacchino, pollo fritto, riso, verdure locali, l’immancabile Spam e qualche altro piatto locale, la cui natura merita un racconto a parte. Ma è un sacrificio minimo, perché il resto della giornata i micronesiani lo trascorrono nel modo che preferiscono in assoluto: in famiglia e bevendo enormi quantità di birra. Come in moltissimi altri paesi in cui l’alcol è stato introdotto o legalizzato in tempi relativamente recenti, gli abitanti della Micronesia hanno con gli alcolici un rapporto del tutto squilibrato. In pratica ignorano del tutto il concetto di qualità e spendono gran parte del tempo libero dal lavoro bevendosi buona parte dello stipendio sotto forma di pessime birre. Una delle ragioni è che qui acquistare alcolici è incredibilmente economico, dato che questo è tra i pochissimi paesi al mondo che non tassa gli alcolici. L’alcool è la causa delle rare violazioni della legge a Pohnpei – qualche rissa e qualche caso di guida in stato di ebbrezza al mese – ma in moltissime altre isole l’alcol è totalmente vietato per evitare i problemi che causa alle famiglie e alla società. Pohnpei in questo sembra più tollerante – gli stessi membri del governo non disdegnano certe esuberanze quando capita l’occasione – ma da qualche anno la legge vieta la vendita di alcolici ovunque sull’isola – negozi, bar, alberghi – dal 24 al 26 dicembre, e il 30 dicembre e il 2 gennaio. Negli ultimi anni infatti i festeggiamenti erano giunti a degli eccessi mai visti prima, con risse, incidenti e svariati danni. Naturalmente, l’idea di impedire l’abuso di alcolici semplicemente vietandone la vendita per un paio di giorni sembra piuttosto ridicola, dato che la basterebbe fare un po’ di scorte in anticipo. Ma il Parlamento qui sa con chi ha a che fare. È infatti praticamente impossibile per un micronesiano portare a casa qualcosa – in particolar modo birre – e sperare che resista per più di un giorno senza che qualcuno in famiglia se ne appropri. Poiché qui “famiglia” significa ogni parente fino al 6° o 7° grado e il concetto di “obbligo familiare” implica condividere ogni cosa si possieda, ecco che la legge ha decisamente senso. E funziona. L’unico aspetto negativo è che se vuoi brindare durante le feste devi farlo tra le mura di casa.
Nonostante il nostro interesse per la cultura e le tradizioni locali, tuttavia, né io né Matt abbiamo stomaco per una colazione a base di maiale e Spam seguita da una messa di qualche ora in lingua locale. E così ci siamo attenuti alle nostre tradizioni. Il 25 abbiamo aiutato Sebastian ad aprire i regalini che gli avevamo fatto, abbiamo aperto il nostro – della fantastica attrezzatura da snorkling arrivata il giorno prima dagli Usa – e poi siamo andati a goderci un fantastico pranzo di Natale tra le incantevoli mura del compound dell’Australian Navy. Se abiti a Pohnpei è impossibile non sviluppare un’adorazione per gli australiani – una volta che riesci a capirne l’accento. Di tutti i tentativi fatti dagli inglesi di esportare lingua, cultura e tradizioni britanniche in giro per il mondo, quello con gli australiani è senza dubbio l’esperimento più riuscito. Loro dicono scherzando perché la colonia fu fondata da carcerati invece che da dei Lord, certo è che sono competenti, efficienti, divertenti e rilassati tutto allo stesso tempo. Gli uffici dell’Australian Navy, giù al porto, non sono niente di speciale, ma il luogo dove i tre ufficiali della marina più alti in grado e le loro famiglie vivono sintetizza lo spirito del loro paese alla perfezione. Tre case piuttosto semplici in legno, i parcheggi per le auto sotto, gli alloggi sopra. Se appartenessero alla Marina di un qualunque altro paese, dubito che il luogo avrebbe alcun fascino, ma l’Australia si prende cura dei suoi militari. Paga per il collegio dei figli più grandi in Australia e per le loro visite alla famiglia in Micronesia, fornisce gli ufficiali, le mogli e i pargoli dei biglietti aerei per andare in vacanza, e fornisce loro container speciali di cibo dalla madrepatria. Le case poi – spaziose, luminose e fresche – sono circondate da un magnifico prato, con un campo da tennis, la piscina, un grande gazebo per le feste e una barca per le gite a loro completa disposizione. Questo paradiso – che suona lussuoso ed invece è un piccolo gioiello, semplice ed elegante – ha poi un nome che riassume lo spirito informale di tutti gli australiani, militari compresi: Kangaroo Court, la Corte del Canguro.
Jennifer e Barry – il comandante dall’accento impossibile – avevano organizzato da settimane il pranzo di Natale per tutte e tre le famiglie del compound e per alcuni degli espatriati. Ognuno era arrivato portando qualcosa da mangiare o da bere e io, come da accordi, mi ero dedicata agli stuzzichini con l’aperitivo – mini-pizzette con cipolle rosse caramellate, blue cheese e noci – che, devo dire con un certo orgoglio, sono finite in un battibaleno, e per fortuna perché con tutto il tempo che mi ci era voluto a prepararle avrei probabilmente imboccato la gente di persona se non le avessero mangiate. Avevamo un po’ tutti delle riserve sulla riuscita di un pranzo per ben 27 persone, di cui quasi la metà bambini, ma devo ammettere che è stato un’assoluta delizia. Ognuno ha dato il meglio di sé nel preparare i vari piatti, c’era l’immancabile tacchino con varie salse, pasta, tantissima verdura, e persino un enorme prosciutto cotto al forno che Georgina, la figlia diciannovenne dei padroni di casa, da buon membro della tribù di cacciatori, si era portata dietro nel bagaglio a mano durante il volo dall’Australia qualche giorno prima. Jennifer e Barry, poi, avevano lavorato per giorni per assicurarsi che i bambini potessero muoversi liberamente senza rompere nulla o farsi male, e per fare in modo che tutti noi, abituati a mangiare in piedi o seduti dove capita, in quella che sembra la tradizione tra gli espatriati dell’isola, potessimo goderci un pranzo attorno ad un grande tavolo, con bicchieri, piatti e tovaglioli veri, con nomi segnaposto e abbondanza di posate. I padroni di casa avevano messo me vicino a loro, tra Sebastian e Simon Ellis, il biologo marino inglese che si occupa della produzione di perle nere e che è uno dei personaggi più divertenti e straordinari di questo luogo (qui tutti si menzionano solo per nome, ma Simon è sempre e solo Simon Ellis, anche se è decisamente l’unico Simon che ci sia), mentre Matt, all’altra estremità del lungo tavolo, era seduto tra la figlia di un suo collega e Corinne, l’ambasciatrice dell’Australia in Micronesia.
Con la conversazione che lungo tutto il tavolo sembrava non conoscere pause né momenti di noia tutti erano rimasti seduti per ore, riempiendosi più volte il piatto dei vari dolci e godendosi l’atmosfera, mentre i bambini giocavano nel prato e Sebastian tentava disperatamente di distruggere l’albero di Natale. Dal tavolo eravamo poi passati alla grande veranda sul fronte della casa, sprofondando nei divani portati fuori per fare posto al grande tavolo, continuando a chiacchierare. Sebastian intanto si godeva le coccole di tutti, adulti e bambini, ma nel tardo pomeriggio la mancanza del riposino pomeridiano si era fatta sentire, e avevamo deciso di tornare a casa. Ma proprio mentre stavamo salutando una delle bimbe era uscita per dirci che Sebastian si era addormentato in braccio ad Elisabeth, la figlia dodicenne dei padroni di casa. Quando ero andata a controllare lo avevo trovato su un grande cuscino nel pavimento del salotto, abbracciato al suo inseparabile Rino e con una copertina bianca a proteggerlo dall’aria condizionata. A pochi passi, Lindsey, la bimba di due mesi di uno degli ufficiali – l’ultima di 5 – dormiva beata sulla sua cesta. Tutto intorno una decina di altri bambini giocava saltando e ridendo, ma i due piccoli dormivano imperterriti, nonostante il frastuono. E così avevamo rimesso a terra le borse e ci eravamo seduti di nuovo, godendoci il tramonto, la gente e le chiacchiere di questo Natale ai tropici. Inusuale e un po’ irreale.

22 dicembre 2004


25 novembre 2004: Sebastian compie un anno.

11 dicembre 2004

UNA TRIBÙ DI CACCIATORI

Abbiamo letto tutti, negli anni di scuola o in qualche numero di National Geographic, delle rare tribù di cacciatori rimaste sulla terra. Sopravvissuti alle colonizzazioni e allo sviluppo, questi piccoli gruppi si muovono agili nel territorio alla ricerca di cibo, utilizzando tecniche collaudate da generazioni, lavorando in team e dividendo il prodotto della caccia. Tribù affascinanti, ma inevitabilmente destinate a sparire. O almeno così avevo sempre pensato.
Finché non sono finita a far parte di una di loro.
Non è stata una scelta voluta, naturalmente. È stato l’arrivo a Pohnpei a catapultarci all’interno di questo gruppo e a condividerne usi e costumi. Suona avventuroso, ma sfortunatamente questa tribù manca del fascino che caratterizza le sue simili, avendo ben poco a che fare con le incantevoli tradizioni degli abitanti di queste isole. Perché i cacciatori in questione non sono abili e scaltri micronesiani che si muovono felini nella foresta. No, questa è una tribù di pallidi componenti spesso fuori forma che setacciano il territorio con tecniche raffinatissime, muovendosi quasi esclusivamente in auto e comunicando con le più moderne tecnologie: la tribù degli espatriati. Il loro scopo: trovare cibo decente.
Sapevamo ben prima di arrivare che a Pohnpei il cibo avrebbe potuto essere un problema. Non la scarsità, naturalmente. Solo la varietà. La presenza sull’isola di un certo numero di stranieri, tuttavia, mi rendeva fiduciosa; poiché le logiche di mercato tendono ad essere le stesse ovunque, se c’èra domanda, sicuramente l’offerta si sarebbe adattata. In fondo gli americani avevano amministrato questi territori per quarant’anni, qualche stralcio di capitalismo dovevano pur averlo inculcato. Ma era, lo capimmo appena arrivati, una visione un po’ troppo ottimistica.
La natura ha donato a queste terre calde, umide e isolate un’enorme varietà di piante – la sola Pohnpei ne ha quasi 700 diverse specie, di cui circa 120 introvabili altrove – ma ha compensato la sua generosità con grossi limiti. Prima di tutto non ci sono prati o pascoli. Il che significa niente vacche né pecore. Quindi niente latte fresco, niente formaggi, niente carne bovina. Poi praticamente niente verdure; il terreno è inadatto e le piogge troppo abbondanti. Quindi niente pomodori, niente zucchine, o funghi, carciofi, broccoli, peperoni, sedano e così via. E niente insalata. Di nessun tipo. Niente frutta che non sia autoctona. E anche questa con una certa difficoltà. Nonostante il clima rimanga praticamente immutato tutto l’anno, infatti, molti dei frutti sono stagionali. Se cocco e banane si trovano in ogni giardino ad ogni momento (ma bisogna trovare il modo di andarseli a prendere), mango e papaie sono purtroppo disponibili solo per un breve periodo all’anno. E lo stesso vale per i breadfruits, i frutti dell’albero del pane indistinguibili dalle patate dolci se non per il fatto che crescono sugli alberi e non sotto terra.
Naturalmente, poiché la gente del posto è sopravvissuta per millenni con le risorse disponibili, non c’è ragione apparente affinché noi viziati espatriati non si possa fare lo stesso. A nostra comune difesa devo dire che è meno facile di quanto sembri. Prima di tutto, ogni famiglia qui, anche la più malandata, possiede immancabilmente tre beni di notevole importanza: terra, polli e maiali. Seguendo una logica che dal punto di vista di ogni pohnpeiano non fa una piega, poiché tutti i prodotti derivati dai tre beni sono disponibili a casa propria, non vi è ragione alcuna per venderli nei negozi. Nessuno pare aver notato che tutti coloro che non sono originari dell’isola, e siamo centinaia, non solo non possiedono terra – è contro la legge – e mancano dell’agilità necessaria per arrampicarsi sulle palme, ma sembrano particolarmente riluttanti ad allevare polli e maiali nel terrazzo di casa. L’inevitabile conseguenza è che, nonostante sia impossibile percorre più di cinquanta metri ovunque senza incappare in intere famiglie di polli, i supermercati vendono solo loro simili surgelati provenienti dall’Australia e giunti qui dopo un mese di viaggio via cargo. E lo stesso vale per tutti i prodotti freschi. Lo scorso mese ad un certo punto era diventato impossibile trovare uova. No eggs on the island, commentavano rassegnati un po’ tutti. Come niente uova, borbottavo io, con tutte ste’ galline. Eppure non c’è stato niente da fare, per una settimana, finché la nave dall’Australia non è arrivata con il suo bel carico, niente uova. E non è la prima volta. La moglie di un collega di Matt mi raccontava che l’anno scorso al supermercato era in fila alla cassa dietro al Capo di Stato della Micronesia – il quale essendo da un’altra isola sta in affitto pure lui – che chiedeva preoccupato ad una laconica cassiera come fare, dato che sua moglie lo aveva mandato a comperare una dozzina di uova di cui aveva assolutamente bisogno. Vi è una certa soddisfazione, lo ammetto, nel sapere che il Presidente sacramenta come te – e per le tue stesse ragioni – quando va a fare la spesa. Certo, sarebbe meglio se il Presidente riuscisse a convincere i suoi compatrioti che fornire i negozi di uova locali, invece di importarle, creerebbe posti di lavoro, reddito e, soprattutto, siamo onesti, farebbe immensamente felici centinaia di espatriati. Ma pare che sia una causa praticamente persa.
Ciò che vale per carne e uova vale naturalmente anche per le verdure. Se patate, carote e cipolle in qualche modo si riescono quasi sempre a reperire, per ogni altra cosa siamo tutti dipendenti dalle navi. Ed è qui che le tecniche di caccia si fanno raffinate. Tempestività è la parola chiave. Perché se si perde l’occasione giusta si rischia di dover attendere la battuta di caccia successiva. Il che significa settimane di attesa. La prima cosa da fare è scoprire quando le navi attraccano, un compito al quale il gruppo di espatriati-cacciatori lavora compatto e solidale. Poiché gli arrivi non sono mai regolari e, soprattutto, sono soggetti ad imprevedibili ritardi per le ragioni più varie – maltempo, guasti, problemi doganali in altre isole – chiedere giù al porto è una perdita di tempo. I micronesiani sono privi delle ansie che torturano tutti noi. La cosa migliore è tartassare senza darlo a vedere gli ufficiali della marina australiana che pattugliano l’arcipelago per evitare la pesca di frodo, anche se pure loro sanno delle navi solo quando queste entrano le acque territoriali. Nel mio caso la cosa non è nemmeno particolarmente difficile, io e Jennifer, la moglie dell’ufficiale più alto in grado, condividiamo la passione per la cucina e siamo diventate amiche. Il problema è che Barry, suo marito, parla con l’accento più ostico che mi sia capitato d’incontrare. In due mesi non sono riuscita a capire una sola parola di quello che dice. Potrebbe parlare nepalese per quanto ne so io. La prima volta sono rimasta a guardarlo come un’idiota per dieci minuti mentre mi raccontava cosa faceva quaggiù, e poi ho dovuto chiederlo a Matt. Qualche sera fa alla festa d’addio di una collega di Matt in partenza per gli Stati Uniti ho avuto la malaugurata idea di chiedergli come stava dopo che aveva portato da bere a me e a sua moglie. Niente. Non ho capito assolutamente niente. Inutile dire che lo evito come la peste e la sola idea di domandargli delle navi mi terrorizza.
Fortunatamente posso sempre contare sul resto della tribù, e in qualche modo, anche se spesso con approssimazione, le informazioni girano. Le navi dovrebbero arrivano in media ogni tre settimane, ma è meglio non farsi troppe illusioni. L’anno scorso non ne è arrivata nessuna per quasi due mesi, e le storie di creatività raggiunta per mettere insieme un pasto decente con cibi in scatola di pessima qualità fanno ormai parte della storia della tribù degli espatriati. Non che l’arrivo di una nave significhi automaticamente un miglioramento della dieta quotidiana, comunque. Dopo un mese nella stiva le verdure hanno spesso l’aspetto di aver sofferto il mal di mare per buona parte del viaggio. Pallide, molli, spesso ammaccate, negli scaffali di un nostro qualunque supermercato verrebbero irrimediabilmente trascurate. Ma non qui. No, qui queste parenti povere delle nostre primizie dell’orto scatenano una corsa all’oro senza paragoni. I cacciatori danno il meglio di sé non appena l’agognato cibo raggiunge il suolo di Pohnpei: pochi minuti dopo essere stato avvistato – ancora prima di essere esposto nei negozi, spesso mentre viene scaricato in porto – viene repentinamente circondato con una manovra ormai consolidata. I telefoni cominciano a squillare, la voce si sparge – spesso si ricevono cinque o sei telefonate da persone diverse in pochi minuti – e la tribù di cacciatori si mette in moto. Tempo al massimo dieci minuti e i negozi sono presi d’assalto. Tempo un paio d’ore e ogni cosa decente è introvabile sugli scaffali. E la soddisfazione dura per giorni. La gente non parla d’altro; si confrontano gli acquisti, ci si gongola nella soddisfazione di aver agguantato l’ultimo pezzo di brie, ci si concedono piatti sognati per settimane, si passano serate intere a cucinare e congelare, perché la roba arriva già sofferente, non si vuole certo lasciarla lì a guastarsi ancora di più.
Ma, inevitabilmente, dopo una settimana siamo daccapo.
È incredibile quanto velocemente un frigorifero si svuoti dei prodotti freschi. E non chiedetemi perché i negozi non ordinino più roba o perché la navi non vengano più spesso dato che tutto viene acquistato in un battibaleno. Il fatto è che bisogna ripiegare suo prodotti confezionati, che si trovano naturalmente un po’ dappertutto. Ma anche qui le cose non sono mai semplici. Prima di tutto, i micronesiani, un po’ come tutti gli abitanti delle isole del Pacifico, negli ultimi decenni hanno introdotto cibi occidentali nella loro dieta, con effetti disastrosi. Con grande meraviglia di tutti, e per ragioni che sono tuttora oscure, qui come a Tonga, nelle Salomon, nelle Marshall e ancora più a sud, intere popolazioni hanno sviluppato un insaziabile appetito per quella specie di carne in scatola chiamata Spam che gli americani usavano in tempo di guerra. Si nutrono praticamente solo di questa e al di là del fatto che l’obesità ha raggiunto livelli epidemici, vi è poco spazio e nessun interesse per cibi che non siano Spam-o-suoi-simili. E gli stranieri, tutti, anche i più adattabili, anche quelli cresciuti a McDonald’s, mostrano una notevole ma comprensibile riluttanza anche solo ad avvicinarsi a tale cibo.
Secondo, ogni negozio, per quanto piccolo, vende una serie sconcertante di prodotti diversi, solitamente cibo, vestiti, scarpe, mobili e giocattoli l’uno di fianco all’altro in pochi metri quadri. Le marche, tuttavia, sono diverse da posto a posto. Conosco gente che sa in ogni momento dove trovare la marca migliore di ogni singolo prodotto o ingrediente sull’intera isola. Si tratta di un lavoro certosino, da navigato detective, perché l’aspetto dei negozi, spesso fatiscenti, semivuoti o seminascosti, trae in inganno. Inutile dire che io sono assolutamente una frana. Fare shopping non è mai stata una delle mie passioni e ogni volta che mi serve qualcosa di specifico finisco nella stessa trappola: vado da negozio a negozio, non trovo quello che mi serve, cerco di pensare a qualcosa di diverso da preparare, non mi viene in mente niente, salgo in auto e torno a casa. La cosa positiva è che di solito trovo un sacco di altre cose che cercavo settimane prima, ma non c’è volta che dopo averle acquistate mi rimanga in mente dove. Gli altri membri della tribù, invece, sembrano sempre avere ben chiaro in mente in quali negozi: A) la possibilità di trovare un certo prodotto è considerevolmente alta, B) la presenza del prodotto segue logiche del tutto casuali, quindi bisogna controllare, C) il prodotto c’è, ma lo tengono in magazzino (?!?) e bisogna specificatamente richiederlo. L’altro giorno ad una cena ho chiesto senza troppa convinzione se fosse possibile comprare albicocche secche da qualche parte e in tre mi hanno risposto all’unisono che da Ace Office Supply certe volte è possibile trovarle. Ora, due domande sorgono spontanee. Primo, com’è che un posto che vende roba da ufficio ha la metà della roba di cui un ufficio ha veramente bisogno ma spreca mezzo corridoio per caramelle, dolci e frutta secca?? Secondo, come diavolo questi tre sapevano immediatamente dove trovare una cosa così inusuale come le albicocche secche? Io sono costretta a tenere liste di dove trovare cosa e sembro essere sempre l’ultima a conoscenza anche delle cose più ovvie. Certo, è anche vero che talvolta faccio scoperte insperate. Mi commuovo ancora al ricordo del giorno che, nell’unico scalcinato supermercato che vende la marca di pannolini che uso per Sebastian, in uno scaffale semivuoto mi sono improvvisamente trovata davanti ad otto perfette, bellissime confezioni di spaghetti e linguine Barilla. Non ho la più pallida idea di come siano finite laggiù e mi sono rifiutata di investigare. La speranza, infatti, è di poter un giorno entrare di nuovo a comprare dei pannolini e uscire con otto pacchi di pasta sotto il braccio e un sorriso da orecchio a orecchio.

Frustrata dai cibi confezionati, nei lunghi giorni in attesa della nave successiva la tribù degli espatriati scaccia i cattivi pensieri facendo essenzialmente due cose: mangiando fuori quando può (per evitare la depressione da cucina priva di cibi freschi, non certo per la varietà delle vivande) e cerca ogni mezzo alternativo per procurarsi il cibo. Alcuni ordinano via internet o chiedono a familiari volenterosi ma perplessi (che probabilmente pensano che loro cari abbiano sviluppato un qualche disordine alimentare, cosa potrebbe altrimenti essere quest’ossessione per il cibo?) di comperare, impacchettare e spedire. Purtroppo i tempi di consegna sono biblici – minimo 6-8 settimane – a meno di non spendere una fortuna per la posta aerea. No, il modo migliore è quello di prendere il telefono e convincere qualche conoscente a spendere i duemila euro del volo e venire in Micronesia – la cosa, apparentemente, è meno difficile di quanto sembri se si citano fianco a fianco nostalgia di casa, atolli, barriere coralline, pensieri suicidi e acqua cristallina, magari piazzando qualche lacrima qua e là – ma NON senza un frigo da campeggio, i cosiddetti coolers, pieno di formaggi e carne. Purtroppo niente verdura, perché verrebbe immediatamente sequestrata alla dogana. Ricordo che quando siamo arrivati all’aeroporto in ottobre eravamo gli unici con le valigie. Tutti gli altri – locali e stranieri – trasportavano enormi coolers sigillati con nastro adesivo e niente altro. In questo luogo si sta, senza dubbio, consumando la mia rivincita. Finalmente, dopo anni di viaggi in uno stile da emigrante di fine Ottocento, con le valigie stracolme di prosciutti, mozzarelle di bufala, pomodorini dell’orto e dolci, mentre i miei vicini di volo guardavano con un certo disgusto i miei tentativi di sollevare il bagaglio a mano – che in teoria doveva pesare 5 kg, ma che in realtà superava i 30 – nello scompartimento sopra i sedili, mi ritrovo tra i miei simili. Solo non avrei mai immaginato che sarebbe stata una tribù di cacciatori.

SOPRA L’ALTARE DI PIETRA

Se gli antichi abitanti di quest’isola avessero scritto una loro versione della Bibbia, il Primo Libro non potrebbe che narrare la storia di Sapkini e la creazione di Pohnpei. Impavido esploratore dei tropici, Sapkini credeva che all’orizzonte, «laggiù dove il cielo incontra il mare», vi fossero altre isole ancora da scoprire, e mondi che attendevano solo di essere rivelati. Selezionata così una ciurma di nove donne e sette uomini – tutti dotati di grandi capacità e ancor più utili poteri magici – Sapkini salpò verso quell’orizzonte. Ma quando giunse laddove cielo e mare si incontrano, non trovò nessuna delle terre misteriose che aveva immaginato. Solo un minuscolo atollo completamente spoglio, grande non più della sua stessa canoa, spuntava dalla vastità del mare. Impietosito dall’angustia di quel lembo di terra, Sapkini ricorse alla magia, facendo giungere da luoghi lontani rocce e terra e animali e piante e fiori d’ogni genere, accumulandoli fino ad ingigantire l’atollo e tramutarlo una vera e propria isola. Per proteggere le coste della sua creazione dalla forza del mare, Sapkini creò una barriera di coralli tutta intorno, e per ingraziarsi gli déi usò rocce e terra per costruire un grande pei, o altare di pietra. Fu così che la nuova isola prese il nome di Pohnpei, ovvero sopra – pohn – l’altare di pietra.
Sfatata quindi la leggenda che il nome sia in qualche modo da attribuire ad un pizzaiolo napoletano di passaggio, è impossibile non notare quanto Sapkini e i suoi si fecero prendere la mano nel ritoccare il piccolo atollo. Tutto a Pohnpei sembra eccessivo, incombente, indomabile. “Lussureggiante” è un termine che non rende giustizia al verde brillante, scuro ed intenso che copre questo spuntone di terra fino quasi a soffocarlo. Dalle coste coperte di mangrovie ai picchi dell’interno, l’isola è in tutto e per tutto una giungla, una versione isolana di foresta pluviale dove gli spazi aperti sono rari e preziosi, e si conquistano a fatica. Avere un giardino significa essere pronti ad uno stato di guerra quasi perenne, machete alla mano, contro l’inappagabile bisogno di terra che la natura manifesta incessantemente. I millenni hanno insegnato alla gente del posto la rassegnazione e il distacco. Le loro case rubano alla foresta il minimo indispensabile, si fondono con l’ambiente e ne assorbono i colori, la consistenza e l’impressionante capacità di sembrare nuove un giorno e in completo disfacimento quello successivo. Noi stranieri invece la rassegnazione e il distacco li impariamo con il tempo. Poco tempo. Al massimo qualche mese dopo essere arrivati – carichi di entusiasmo ed energia, decisi a sfidare gli elementi della natura e ad uscirne vincitori – diveniamo tutti, senza eccezioni, consapevoli di un paio di inoppugnabili dati di fatto: i nostri sforzi richiedono troppa energia per un clima così umido, troppo operosità per una cultura che viaggia a tempi assai diversi dei nostri e – nel caso si voglia far fare il lavoro ad altri – decisamente troppi soldi.

La realtà, tuttavia, non sarebbe poi tanto estrema se non fosse per un fattore altamente determinante: a Pohnpei piove. Decisamente tanto. È così che la natura prospera furiosa e incontrollabile. Nel cielo sempre in movimento si agitano nuvoloni grigi carichi di pioggia che in una sorta di punizione dantesca sembrano incapaci di liberarsi una volta per tutte dei loro fardelli. E così, giorno dopo giorno, anelli di una catena di montaggio che conosce rare pause e nessuna vacanza, scaricano sulla capitale ben 495 cm di acqua l’anno. Cinque metri. Un’enormità, tenuto conto che le più piovose città europee arrivano ad una novantina di centimetri. Ben poco, tuttavia, se paragonato ai picchi dell’interno, che con più di 10 metri di pioggia annui sono uno dei posti più bagnati del pianeta. Insomma, non è che l’altare di pietra costruito da Sapkini per ingraziarsi gli déi sia poi servito a molto, dato che su Pohnpei gli déi scaricano acqua dal cielo in media 300 giorni all’anno. Detta così sembra quasi una tragedia. Eppure con 26 gradi e 80-90 percento di umidità giornalieri, nei giorni di cielo terso si sente la mancanza di un bell’acquazzone. Tale è il piacere di un po’ di frescura, per quanto effimera, che nessuno usa gli ombrelli e nessuno si ripara quando piove. Si rimane a chiacchierare come nulla fosse, gli occhiali da sole sul naso, tanto in pochi minuti tutto passa, torna il sole e l’asciutto, il verde brilla un po’ di più e il mare, laggiù, oltre le case e le mangrovie, è di un azzurro che fa male a guardarlo. E se vi sono mesi, in realtà, in cui le piogge sono più scarse, la differenza a malapena si nota. Per dirla con le parole di uno straniero da anni residente sull’isola: «L’anno scorso la stagione secca credo che fu un martedì».
Eppure le divinità del posto qualcosa in cambio lo hanno concesso. Hanno fatto di Pohnpei una terra di superlativi, per lo meno all’interno degli Stati Federati della Micronesia. Su quei sterminati 2,6 milioni di km quadrati di Oceano Pacifico (quasi la superficie degli Stati Uniti) su cui affiorano, «come una manciata di piselli gettati al vento», più di 600 tra isole e atolli, questa è la terra con la maggiore superficie – ben 334 kmq su un totale di appena 705 kmq – con le montagne più alte, le valli più profonde, la strada più lunga, la popolazione più numerosa e, allo stesso tempo, la maggior area non abitata del paese. Ma gli déi le hanno concesso anche altri privilegi. Quello di essere bellissima. Intensa. Opulenta. E quello di essere ricca. Ricca di storia, perché Pohnpei è un sito archeologico di straordinaria importanza. E ricchissima di cultura e tradizioni, con i suoi cinque regni, un sistema sociale che è un articolato intrico di gerarchie, titoli e relazioni, e un complesso legame con la terra che per secoli ha determinato leggi, costumi, guerre e matrimoni, e che ancora oggi è il perno attorno a cui tutto ruota.
Eppure negli ultimi tempi gli déi hanno perso un pò di smalto. Un tempo fiera, potente e indipendente, Pohnpei è ora, dopo 110 anni di dominazione straniera, la capitale di un paese in cerca del suo posto tra le nazioni moderne. Questo però è un mondo di regole scritte con in mente ben altro che isole sperdute nel Pacifico. Nazione senza uguali – immensa e piccolissima al tempo stesso, senza partiti politici, senza esercito, ricca solo dell’incomparabile bellezza dei suoi luoghi e della straordinaria pescosità del suo mare – la Micronesia vive con indifferenza il suo limitato benessere e con fierezza l’assenza dei conflitti che sembrano affliggere il resto del pianeta. Ma doversi adattare ai duri principi che governano il resto del mondo la intristisce e la confonde, come una vecchia signora perplessa di fronte ai costumi delle nuove generazioni. La sua gente si rammarica senza lamentarsi, augurandosi che il resto del mondo continui ad ignorarla come in fondo ha fatto per secoli. E sperando, forse, che per una volta l’altare di pietra funzioni e gli déi siano un po’ più benevoli che in passato. O un po’ più efficienti.

10 dicembre 2004


La giungla dietro casa, ovvero il nostro giardino.

Pohnpei e le sue inseparabili nuvole visti dall’isolotto di Black Coral