28 febbraio 2005

Faccende domestiche (parte 1)

Prima di venire in Micronesia avevamo comperato tutti i libri che eravamo riusciti a trovare su questo luogo. Non erano molti e uno dopo l’altro, nelle afose serate dell’estate veneziana, erano stati letti, analizzati e discussi. Erano libri di storia, di economia, di antropologia, guide turistiche, raccolte di leggende e tradizioni. Ci avevano detto ogni cosa su questi posti e quando arrivammo credevamo di essere decentemente preparati ad affrontare la vita su un’isola del Pacifico. E lo eravamo. O quasi. Purtroppo non c’è una sola pagina in quei libri in grado di preparare un povero espatriato alla serie di singolari misure che devono essere prese all’interno della propria abitazione per riuscire a vivere in modo accettabile. E credo proprio che qualcuno dovrebbe prendersi la briga di mettere insieme un paio di suggerimenti, poche pagine intitolate qualcosa come: "Abituarsi all’assurdo. poche ma indispensabili avvertimenti per non soccombere alla disperazione in casa propria".
AVVERIMENTO N.1: Se non pulisci ti aspetta una guerra
La cucina, a Pohnpei, non è luogo per gli incasinati e i distratti. Punto. Bisogna tenerla pulita in maniera irreprensibile e organizzarla con stile militare, o ci si ritrova coinvolti in una guerra senza fine con ben poche speranze di vittoria. Questa è una lezione che io ho imparato uno dei primi giorni, quando ho lasciato una lattina di coca aperta vicino al lavandino e un’ora dopo un intero formicaio in assetto da guerra ne aveva preso possesso e se la stava finendo.
Le formiche sono, inutile dirlo, una presenza inevitabile laddove la natura regna sovrana. Qui però sono una sorta di piaga d’Egitto, sgambettano ovunque, instancabili, insensibili al caldo, alla fatica e alle imprecazioni di cui sono oggetto. So che per le loro straordinarie capacità organizzative le formiche passano per delle vere e proprie meraviglie del mondo animale, ma il loro essere così dannatamente esasperanti non permette a nessuno qui di apprezzarle come meriterebbero. Perché basta la presenza di una goccia di qualunque bevanda o un pezzettino anche minuscolo di cibo a scatenare una sorta di corsa all’oro che fa fremere di eccitazione l’intera colonia. La notizia passa di formica in formica finché qualche migliaio non ne è a conoscenza, e devo dire che per essere prive della parola le bestiole sanno comunicare fin troppo bene. Pare che i messaggi vengano trasmessi toccandosi reciprocamente le antenne, e deve essere vero, perché le ho viste farlo in continuazione sui ripiani della cucina – a meno, naturalmente, che non abbiano l’italica abitudine di scambiarsi un paio di baci quando si incontrano. Mi domando però cosa si dicano. Solo comunicazioni di base del tipo «goccia sugo tra fornello e lavandino» o «briciola vicino cassetto posate», oppure cose più elaborate come «quest’idiota ha dimenticato ancora una volta una lattina aperta ed è appena uscita di casa, e poi hai visto com’era vestita oggi»? Qualunque sia il loro livello di comunicazione, comunque, il sistema necessita ancora di qualche miglioramento. Perché anche ore dopo che l’oggetto del loro desiderio è stato rimosso, frotte di formiche continuano imperterrite ad arrivare e a cercarlo, girando in tondo, fermandosi stupite, buttando occhiate a destra e a sinistra chiaramente agitate, come turisti alla disperata ricerca di qualcosa segnalato sulla guida che sembra essere svanito nel nulla.
Tutti dicono che quella con le formiche è una guerra persa in partenza. Gli argomenti sono sempre gli stessi: ce ne sono troppe, sono fastidiose ma innocue, meglio qualche formica dei serpenti. Lo dicono perché a Pohnpei non esistono rettili e ci mancherebbero pure quelli. Ma a noi le formiche danno fastidio lo stesso, e devo dire – non senza un malcelato vanto – che per il momento la battaglia nella nostra cucina l’ho vinta io. Dopo l’esperienza della lattina di coca ho infatti adottato una serie di regole ferree che nessuno è autorizzato a trasgredire, pena il bando da casa. La prima, ovviamente, è quella di pulire immediatamente la cucina e gli attrezzi ogni qualvolta li si usi. È un po’ una palla da maniaci, ma dà i suoi frutti. Secondo, ogni alimento aperto va immediatamente riposto in frigorifero o in un contenitore ermetico. Questa più che una regola è un imperativo, e tutti qui possiedono centinaia di contenitori di tutte le forme e misure in cui infilano ogni possibile alimento. In qualche modo sembra sempre che non ce ne siano a sufficienza. Alcuni espatriati possiedono addirittura due frigoriferi, uno dei quali è di solito usato a temperatura minima come dispensa per tutti i prodotti in scatola come cereali, farine, biscotti, pasta e zucchero. Noi invece di frigorifero ne abbiamo uno, anche se grande, e tra i sui compiti c’è quello di prendersi cura di un contenitore fondamentale: quello delle immondizie. Non tutte, naturalmente. Solo quelle deperibili. La terza regola è infatti quella di gettare nel bidone della cucina solo cose per cui le formiche non provano attrazione alcuna – carta, vetro, lattine, plastica – ovviamente accuratamente sciacquate. Tutto il resto – bucce, avanzi, scarti – finisce in un bel contenitore ermetico dal coperchio rosso che sta in frigo. Una volta al giorno poi io e Seb camminiamo fino ad un angolo del giardino e svuotiamo il contenitore nella giungla che ha inizio proprio lì, per la gioia non solo delle formiche, ma anche dei polli e dei gatti dell’intero vicinato. Tempo mezz’ora e persino le bucce delle cipolle non si trovano più, fagocitate da chissà quale bestia. Non ha importanza, purché stia lontana dalla mia cucina.

(Continua…)

22 febbraio 2005

Compleanno a caccia

Chi conosce Matt sa bene quanto odi festeggiare il suo compleanno. Con quelli degli altri è generoso e puntuale, non lesina in biglietti, regali e auguri, ma del suo non vuole nemmeno sentir parlare. Sua madre dice che è così da quando era bambino, ma tutta la sua famiglia si ostina a chiamarlo il giorno fatidico per fargli gli auguri e – aggiungo io – lasciarlo di pessimo umore. Ammetto di aver cercato a lungo di fargli cambiare idea, ma poi sono giunta alla filosofica conclusione che lui ha il diritto di passare il compleanno come gli pare. Il mio regalo è quindi quello di lasciarlo in pace. Lo fa contento e a me non costa nulla. Meglio di così!
Ma quest’anno le cose, purtroppo per lui, sono andate diversamente. Un paio di mesi fa avevamo infatti scoperto, del tutto casualmente, che Matt e due delle persone che frequentiamo di più – Stacey, uno dei due avvocati americani della Corte Suprema, e Uta, quella che organizza gli ultimi dell’anno a Black Coral – condividono non solo giorno e mese di nascita, ma pure l’anno! 6 febbraio 1970. L’inusuale coincidenza meritava un festeggiamento particolare, e così è stato.
L’idea mi è venuta durante uno di quei rari momenti in cui la mia mente si concede dei picchi di originalità: lasciamo stare la tipica cena, perché no una caccia al tesoro in giro per l’isola? Due telefonate – a Steve, il marito di Uta, e a Felicia, la migliore amica di Stacey – e l’organizzazione della caccia è partita in quarta all’insaputa di tutti. Dopo un paio di incontri per stabilire il programma generale e vari email per delineare i dettagli, l’invito è stato spedito via email ad amici, conoscenti e, naturalmente, ai tre festeggiati. Matt l’ha presa meglio del previsto. Dopo un iniziale tentativo di protesta ha capitolato ed è pure rimasto di buonumore. A quel punto era fatta.
Il programma per il giorno prescelto prevedeva: 1) pranzo a base di pizza per tutti i concorrenti a casa di Steve e Uta, seguito da 2) caccia, 3) ritrovo per tutti a casa di Felicia, 4) premiazione e 5) cena finale al ristorante. Nonostante le quasi 12 ore filate di attività varie l’adesione è stata massiccia. Il che dimostra quanto poco da fare ci sia da queste parti. Ci siamo così ritrovati a casa di Steve e Uta ad abbuffarci di orrende pizze spesse come focacce e a spiegare le regole. In realtà l’idea di una Tresure Hunt, la caccia al tesoro tradizionale – tanto per intenderci quella in cui c’è un’indicazione iniziale che conduce in un certo luogo dove si trova un’altra indicazione e così via – l’avevamo abbandonata subito perché organizzarla avrebbe richiesto molto una quantità di tempo ed energia che nessuno di noi aveva a disposizione. L’avevamo quindi sostituita con quello che in inglese si chiama Scavenger Hunt, che non ho la più pallida idea come si possa tradurre in italiano. In pratica all’inizio del gioco ognuno dei gruppi, formati da 4 o 5 persone, bambini inclusi, ha ricevuto una lista di cose da fare o trovare, mentre la vittoria finale è stata decisa dai giudici – in questo caso gli auto-proclamatisi Susi, Felicia e Steve – in base a criteri di simpatia e creatività:
Birthday Scavenger Hunt.
Ogni gruppo deve avere una macchina fotografica digitale e portare a termine i seguenti compiti:
1. Fare una foto del gruppo in cima allo Spanish Wall

Lo Spanish Wall, è la cinta muraria costruita durante la colonizzazione… spagnola, ovviamente. Purtroppo l’idea iniziale della foto di gruppo davanti ai vecchi cannoni della contraerea giapponese che stanno in cima a Sokehs Rock (un’oretta di cammino tra andata e ritorno), aveva dovuto essere accantonata per via della pioggia.
2. Portare il cibo scaduto da più tempo che riesce a trovare.
Un gruppo ha portato una busta per fare la zuppa scaduta nel 1999 e trovata nella cucina di uno di loro (!), ma il gruppo che ha vinto ha trovato in un negozio un barattolo dal contenuto ignoto e impossibile da identificare scaduto, incredibile ma vero, nel 1986!
3. Trovare il fiore più bello.
Tutti hanno portato bellissimi fiori esotici – suppongo rubati qua e là – ma ha vinto il gruppo che dopo aver messo davanti ai giudici le loro bimbe di 5 e 6 anni ha proclamato di non aver potuto trovare fiori più belli di quei due. Quando si dice la creatività!
4. Fare una foto del gruppo mentre gioca a basket su uno dei vari campi in giro per l’isola.
Vedi foto 1 e 2.
5. Fare una foto del gruppo di fronte al cartello stradale più divertente che riesce a trovare.
Vedi foto 3 e 4.
6. Trovare lo snack più strano e portarlo a casa di Felicia.
Sfortuna ha voluto che i giudici abbiano dovuto assaggiare i vari snack per prendere una decisione. La vittoria se la sono condivisa i bastoncini croccanti al ripieno di seppiolina (giapponesi) che una volta aperti hanno lasciato un fetore di pesce con cui credo che Felicia e Shaun abbiano convissuto per giorni e le prugne salate (considerate una delizia alle Hawaii) che mi hanno provocato un tale conato di vomito da farmi correre in terrazzo e sputare tutto in giardino.
7. Chiamare o andare alla stazione radio e dedicare una canzone a uno dei tre festeggiati.
Questo ha creato un po’ di confusione perché Bob, che dirige la radio, fatta la prima dedica non voleva fare le altre (non era l’ora giusta) ma ha ceduto – in diretta – quando il gruppo di Matt e Stacey ha piantonato la radio minacciando cordialmente di non andarsene. Bob è stato poi ringraziato con un invito a cena per la sera, che ha prontamente accettato.
8. Trovare qualcosa fatto nel 1970.
Un gruppo ha portato un libro per bambini che la proprietaria si porta in giro per il mondo da decenni (la gente è strana qualche volta…). Il gruppo di Matt e Stacey ha vinto portando, beh, sé stessi e la canzone “Immigrant” dei Led Zeppelin, che essendo anche la canzone richiesta per la dedica alla radio ha permesso loro di catturare, come si dice, “two birds with one stone”.
9. Contare quante porte ci sono sul lato verso la strada del vecchio hotel dove si trova il Rusty Anchor.
Il Rusty Anchor è il locale preferito di tutti noi. Ha una vista bellissima ma sta nei sotterranei di un vecchio hotel mai finito, un ammasso di cemento armato abbandonato che ha un numero indefinito di porte e finestre. Infatti nessuno dei gruppi ha riportato lo stesso numero. 10. Scegliere un nome per il gruppo e spiegare il perché della scelta.
11. Imparare a memoria la prima frase della Costituzione degli Stati Federati della Micronesia.
12. Fare una foto divertente del gruppo.
Vedi foto 5.
13. Preparare una versione della canzone “Happy birthday” da cantare a casa di Felicia.
Tutte divertentissime, ma ha vinto il gruppo con la versione rap. Esilarante.
14. Trovare qualcosa con cui cercare di corrompere i giudici che non costi nulla.
Noi giudici avevamo espressamente dichiarato che questa era la cosa che avrebbe portato più punti ai vari gruppi (eh eh!) e devo dire che qui la creatività ha raggiunto picchi notevoli. Io, Steve e Felicia abbiamo accettato con disinvoltura ogni tipo di corruzione, comprese bottiglie di vino e promesse di cene, massaggi e pareri favorevoli in Corte Suprema, ma non abbiamo saputo nascondere l’eccitazione quando il gruppo degli australiani dell’ambasciata ci ha offerto passaporti diplomatici, assegni in bianco del Ministero degli Affari Esteri e biglietti aerei pre-pagati per l’Australia. Se li sono ripresi a fine serata, purtroppo, ma è stato bello crederci.
Alla fine di tutte le presentazioni noi giudici ci siamo ritirati per decidere, anche se in questi casi stilare una classifica è impresa praticamente impossibile. Dopo un’accorata discussione continuamente interrotta da tentativi – tutti accettati – di corruzione, abbiamo deciso di dare agli australiani il primo posto, al gruppo di Matt e Stacey l’ultimo (di proposito, dato che era fatto di super-competitivi), e il pari-merito agli altri. Tutti hanno portato a casa un premio. Il gruppo ultimo classificato si è portato a casa tutti i cibi scaduti.
Nonostante la lunghissima giornata – terminata con cena al ristorante e tre torte al cioccolato preparate dai giudici (io ho fatto un profitterol di cui, modestamente, si parla ancora) – ci siamo tutti talmente divertiti che la replica è quasi inevitabile. Se non avete mai fatto una cosa del genere pensateci seriamente, ne vale la pena. C’è anche un sito web in inglese con un sacco di idee per questo tipo di giochi e feste. Per gli adulti è un po’ come tornare ai tempi in cui non potevano permettersi praticamente nulla e riuscivano a divertirsi lo stesso. Per i bambini è un modo unico di giocare e dare spazio alla fantasia. E non è un caso che alcune delle idee migliori siano venute proprio da loro!

Foto 1: Matt e Stacey giocano a basket in uno dei tanti campetti sparsi nella giungla.

Foto 2: Il gruppo degli australiani gioca a basket.

Foto 3: Cartello stradale... chi non sa l'inglese cerchi la traduzione (anche se con un po' di immaginazione ci si può arrivare lo stesso).

Foto 4: Foto davanti al cartello stradale.

Foto 5: Fare una foto divertente del gruppo.

Felicia accetta un paio di tentativi di corruzione senza opporre la minima resistenza!

Sebastian intanto si diverte a dare la caccia ai palloncini.

Occhioni!

06 febbraio 2005

OMAGGIO AD HERMES

Una delle cose che sempre mi sorprende del viver in luoghi diversi è come le vite di persone altrimenti lontanissime tra loro si intersechino e in qualche modo si attorciglino tra loro per periodi più o meno lunghi, per poi separarsi all’improvviso e prendere di nuovo strade completamente diverse, quasi sempre per non intersecarsi mai più.
Nell’ultimo mese la mia vita si è stranamente intersecata con quella di 8 ufficiali della Polizia Federale che lavorano con la Marina Australiana al pattugliamento delle immense acque territoriali di questo paese. La pescosità di questi mari è per i pescherecci di paesi come la Cina, il Giappone e le Filippine quello che i diamanti sono per un ladro di gioielli. Irresistibili. Prevenire la pesca di frodo è un quindi un imperativo. Per tutelare l’ambiente – se così non fosse credo resterebbero solo le conchiglie – e soprattutto per le casse dello stato. La principale fonte di reddito di questo paese sono infatti i suoi mari, e in particolare le costose licenze di pesca ambite da mezzo mondo.
Il compito di sorvegliare le acque spetta alla Polizia Federale, che lo può fare grazie alle tre navi donate nell’ultimo decennio dal governo australiano. I tre ufficiali che vivono a Kangaroo Court – dove abbiamo passato il natale – sono qui proprio per aiutare la Polizia in questo compito. Ma si occupano anche di questioni tecniche – due di loro sono ingegneri – e della formazione del personale. Quest’ultima avviene in Australia, all’International Training Center della Difesa, e gli ufficiali di polizia micronesiani vengono mandati laggiù per periodi più o meno lunghi. Molti di loro ci sono stati già quattro o cinque volte. Ma l’anno scorso la Difesa ha improvvisamente deciso che offrire training a persone dai più svariati paesi il cui inglese è spesso a dir poco rudimentale può rivelarsi un’inutile perdita di tempo, e così ha istituito un test di accesso.
La sera della Festa del Ringraziamento, a fine novembre, ero stata avvicinata da Bob, uno degli ufficiali australiani (che a quel tempo non avevo mai incontrato), che mi aveva chiesto se ero interessata a preparare gli studenti al test di accesso. Qualcuno gli aveva parlato di me. Gli avevo fatto presente che l’inglese non era proprio la mia lingua madre e che l’isola pullula di americani, ma mi aveva risposto che io avevo le qualifiche necessarie. Non dovevo infatti insegnare la lingua, dato che gli ufficiali micronesiani parlano tutti inglese. Dovevo aiutarli a capire il test e soprattutto a capire l’accento australiano. Quando mi ha detto questo mi sono quasi cappottata. Io, che capisco un quinto di quello che gli australiani dicono, dovevo aiutare altri a capirli! La vita talvolta ha un senso dell’umorismo del tutto particolare. Ma dopo parecchia indecisione avevo accettato. O meglio, Matt mi aveva convinto. Con la sua solita logica mi aveva fatto notare che poiché il test di per sé è come il TOEFL – il test che gli stranieri devono fare per poter studiare negli Stati Uniti e che io avevo fatto nel 2001 per il mio Master – e nessuno meglio di me quaggiù sapeva come il test funziona e come va preparato.
Agli inizi di gennaio mi ero così ritrovata attorno al grande tavolo di una sala riunioni con 8 ufficiali di polizia, una valanga di dizionari, cassette, video ed centinaia di fotocopie per la simulazione del test. Il timore di non essere all’altezza era svanito quasi subito, grazie soprattutto alla gentilezza dei miei studenti, i quali parevano apprezzare ogni mio sforzo. Ho passato con loro 5 ore al giorno, 5 giorni a settimana per 4 settimane, durante le quali li ho fatti lavorare come non avevano mai fatto, per lo meno da studenti. Ho sempre detestato gli insegnanti che salgono in cattedra e parlano, parlano, parlano e tu sei li che ascolti e dopo un po’ caschi dal sonno. E così questi poveri ufficiali abituati alle scuole micronesiane – in cui la regola è stare zitti, non pensare, ripetere a richiesta e non fare domande inutili – si sono ritrovati a fare giochi di ruolo, analizzare articoli di giornale, simulare incontri diplomatici e persino a fare una partita a Taboo (per migliorare il vocabolario, mica per divertimento, anche se ci siamo rotolati sul pavimento dalle risate). Era stata una soddisfazione, lo ammetto, udire uno di loro esclamare “God, I love this class!” all’inizio della seconda settimana.
E devo dire che io ho imparato almeno quanto loro. I temi scritti mi hanno infatti dato l’opportunità di soddisfare la mia curiosità sulle loro vite, il loro passato, e le tradizioni delle loro comunità. Ogni studente viene da un’isola diversa, alcune sono lontane migliaia di chilometri da Pohnpei e hanno lingue, storia e tradizioni diversissime. Jim ad esempio viene dallo stato di Yap – notoriamente il più attaccato alle tradizioni. Nella sua isola, dal fantastico nome di Falolai Woleap, le donne vanno tutte topless, le case sono capanne completamente aperte costruite lungo una laguna incontaminata, e tutto ciò che è occidentale è bandito per decisione degli abitanti. Quando Jim va a visitare i suoi si spoglia dei suoi abiti, indossa un lavalava – un pezzo di tessuto fatto di fibre di ibiscus o banana che si lega in vita e arriva fino alle ginocchia – e non può nemmeno portare gli occhiali da sole, lui che gira sempre in pantaloni mimetici e ray ban. I loro temi mi hanno rivelato la profonda nostalgia per uno stile di vita semplice ma ricco di affetti, il legame indissolubile con tutta la famiglia e la comunità, una serie di regole e tradizioni che su isole sperdute acquistano immediatamente senso, e l’ossessione comune per il rispetto reciproco, citato ripetutamente in ogni tema e unanimemente considerato il principale pregio di ogni individuo.
I giorni erano passati veloci e l’ultima settimana era arrivata quasi all’improvviso. Lunedì mattina ero arrivata alla sede della marina in anticipo, con la solita pila di libri sotto il braccio e pronta a fare decine di fotocopie, ma Bob non mi aveva dato nemmeno il tempo di chiudere la porta. “Brutte notizie” aveva detto. Lo avevo guardato con un mezzo sorriso, perché due settimane prima Steve, il suo collega, mi aveva accolta con la stessa frase prima di annunciarmi che i soldi per pagare il mio stipendio per qualche strana ragione non erano disponibili. Lo avevo guardato con un’espressione che diceva più o meno che la cosa non mi riguardava e se i soldi non c’erano li avrebbe tirati fuori lui, e Steve si era subito corretto dicendo che non avevo di che preoccuparmi, i soldi sarebbero saltati fuori. E così era stato.
Ma Bob non aveva notizie di questo genere. Nel solito stile militare che manca totalmente di diplomazia aveva annunciato: “Sabato Hermes si è suicidato”. Confesso di averci messo un po’ a registrare la notizia. Hermes? Come Hermes? Hermes il mio ufficiale, quello che mi aiutava sempre con i libri e che aveva detto di amare la classe? Quello che tre giorni prima aveva scritto un tema sulle sue responsabilità professionali e aveva finito per parlare dei suoi tanti sogni per il futuro? Quello che voleva esercizi sempre più difficili ed esultava per ogni risposta esatta? Quello che arrivava sempre in anticipo? Come Hermes?
Ma Bob parlava proprio di lui. Sabato Hermes era ad una festa di compleanno all’aperto quando il cellulare era suonato e lui si era allontanato per parlare. Dopo un’ora, non vedendolo tornare erano andati a cercarlo, e lo avevano trovato impiccato ad un albero, non lontano dal resto del gruppo. Il capo della polizia mi ha poi detto che il suo cellulare riportava due telefonate a sua moglie in quel lasso di tempo. I due erano sposati da poco – lui non aveva che 25 anni, era il più giovane del mio gruppo fatto per la maggioranza di quarantenni – e lei si trovava da un paio di settimane alle isole Fiji per un training. Qualcosa è successo tra loro, dice la polizia. Eppure non riesco a pensare a cosa possa averlo sconvolto così tanto da togliersi la vita pochi minuti dopo una telefonata. Lo so, ogni volta che qualcuno si suicida tutti dicono che è impossibile, che non c’è ragione. Ma io leggevo ogni giorno quello che lui scriveva e non c’è niente nei suoi scritti, proprio niente, che indichi una qualunque preoccupazione. Si può mentire con la voce, ma non con gli scritti. O almeno così avevo sempre pensato.
Eppure la polizia ha aperto un’inchiesta. Voci hanno cominciato a circolare – c’era sangue, chi lo ha portato all’ospedale lo ha lasciato lì ed è sparito – ma è difficile pensare ad un omicidio, non solo perché qui sono rarissimi, ma perché è difficile ammazzare un ufficiale di polizia a pochi passi da un gruppo di amici e pure impiccarlo. È stato quasi sicuramente un suicidio, e se così non è non vi sono comunque le prove. La polizia qui non ha gli strumenti necessari a trovarle. Dubito anche che i medici sull’isola siano in grado di fare un’autopsia seria.
In qualche modo quel lunedì sono andata in classe e ho fatto cinque ore di lezione. Non ho molti ricordi di quella mattina, se non che ogni cosa era incredibilmente difficile, persino assegnare gli esercizi. Ad un certo punto ho chiamato un altro studente con il suo nome. Per un paio di giorni ho persino continuato a fare lo stesso numero di fotocopie, come se non mi rendessi conto che c’era uno studente di meno. Il resto della classe non ha parlato di lui, né di cosa è successo. La morte è una cosa complessa da queste parti. E l’ambiente militare non aiuta di certo ad esprimere certe emozioni. Il che in fondo è meglio, non avrei proprio saputo come gestire un pubblica manifestazione di disperazione. E così la classe ha continuato il suo lavoro e venerdì i miei 7 studenti hanno fatto il test. È andato bene, loro sono arrivati con dei regali per me – forse in cambio di tutti i biscotti che avevo distribuito durante i temi – io ho fatto un paio di foto e ho augurato loro in bocca al lupo. Sabato quattro di loro sono partiti con una delle navi e quindici altri ufficiali, per riportare il corpo di Hermes alla sua famiglia per il funerale, sulla sua isola nello stato di Yap. Un viaggio di giorni per tornare sull’isola che lui aveva scritto essere il luogo più bello del mondo. Forse spiagge incontaminate e acque turchesi non sono abbastanza per continuare a vivere. Ma di sicuro sono un buon posto per il riposo eterno.
Buon viaggio Hermes.